Cara fabbrica/ Il coraggio di Vincenzina
Mia sorella Vincenzina non aveva nemmeno 20 anni: era una ragazza bruna, sottile, piccola piccola che – ricordo – faceva fatica a salire sulla bici per andare su alla fabbrica dove lavorava da qualche mese. Era sempre disponibile, sempre pronta ad aiutare me e nostra madre. Da quando nostro padre se ne era andato all’altro mondo ed io dovevo finire di studiare per laurearmi, era solo Vincenzina che portava a casa qualche soldo, giusto appena per arrivare a fine mese senza grossi problemi. Era lei che mi pagava le tasse dell’università e i libri; non ho mai capito se non avesse voluto studiare per pigrizia o per senso di responsabilità: sta di fatto che quando parlavamo di questo, le dicevo che ancora qualche anno e poi le avrei inondate io di soldi, le avrei fatte vivere da regine, e a Vincenzina avrei regalato di sicuro per prima cosa il motorino, così non doveva stancarsi a fare ogni giorno tutti quei chilometri con sole e pioggia in estate e in inverno e poi col tempo lsarebbe arrivata anche la macchina.
Da piccole giocavamo spesso assieme e lei aveva la fissa delle bambole, dei vestiti da tagliare e cucire da sola e si vedeva che quello sarebbe stato il suo lavoro; avrebbe voluto studiare da sarta, aprirsi un negozio di taglia e cuci, come ancora si faceva in provincia, poi farsi una buona clientela e il resto sarebbe venuto un po’ alla volta. Eppure quella fabbrica la stava rovinando: tutte le mattine alle 6 precise la sveglia, poi preparava la colazione per me che spesso mi alzavo presto per studiare e, dato che nostra madre a volte faceva tardi la sera per finire di sistemare la cucina o si arrabattava tra il tinello e la camera per mettere in ordine tutto, era lei che faceva il caffè e il resto. Sembrava sempre serena: tra le fossette delle guance magre le si stagliava un sorriso bianchissimo così ingenuo che a volte mi contagiava ed ora che mi si stanno annebbiando un po’ i ricordi dopo tanti anni ancora mi commuovo. E poi era così entusiasta sempre di tutto, del sole nei mattini d’estate, della neve, persino di quella nebbia fitta e gelida che a volte da noi nella bassa padana copriva case e campi e col buio metteva paura.
Quando era in fabbrica, mi raccontava, le piaceva stare alla macchina a cucire i colletti e i polsini: la camiceria dove lavorava era una delle più importanti della bassa e ben avviata negli affari, anche se da anni ci lavoravano tante ragazzine del paese, appena sedicenni o poco più e si sapeva che non tutte erano in regola e anche se c’erano stati dei controlli, niente era cambiato. Comunque a Vincenzina e a noi andava bene, del resto non c’era tanto altro in paese per una ragazza e sennò avrebbe dovuto spostarsi più lontano e sarebbe stato peggio. A quella macchina ci stava seduta almeno 8 ore al giorno, ma mi diceva che, quando alla sera usciva, quei chilometri in bicicletta l’aiutavano a sgranchirsi le gambe; eppure qualche volta avrebbe voluto fare come le ragazze sgambettanti della televisione e andare a ballare, trovarsi un ragazzo con cui fare l’amore e sognare di cose belle. Io che avevo qualche anno in più, il ragazzo ce l’avevo, ma sentivo che non era fatto per me e che dopo la laurea sarebbe finito tutto.
In fabbrica Vincenzina era una delle più brave e delle più veloci; quel mese aveva battuto il suo record e aveva rifinito più di 2000 camicie, con una media di almeno 80/100 a giorno. Dopo di lei nel settore B c’erano la Wanda, la Anna dei Rossaro che abitavano dietro di noi e la Dony – Donatella – che era arrivata da qualche giorno: queste erano addette al confezionamento, spillavano le camicie, controllavano se fosse tutto in ordine e finivano di metterle nelle scatole pronte per essere imballate in scatoloni e poi portate nei magazzini all’ingrosso oppure al negoziante. Il mercato era buono in quel periodo e la ditta vendeva bene. I proprietari erano i Buson della Volta Bassa: avevano investito di prima generazione già da metà degli anni sessanta ed ora oltre al paron grosso, il vecchio Bepi, sempre corretto con tutti, un uomo tutto d’un pezzo che nel ‘45 era tornato dal campo di lavoro in Germania e aveva messo su famiglia in fretta e furia con la Giulietta dei Fasolo, c’erano i due giovani figli: Graziano e Lucio. Loro due avevano ben poco del padre, se non quel fisico alto alto e robusto che piaceva alle donne e con cui erano abituati alle conquiste già facili per loro persino su in città, dove – si sapeva – le ragazze erano più esigenti e oltre alla bellezza guardavano anche alla macchina che avevi e al portafoglio. Il più giovane, Lucio era stato coinvolto qualche anno prima in una storia strana su cui non si era mai fatto luce e le operaie più scaltre lo sapevano che era meglio evitarlo; la Vincenzina che era ingenua e non le passava certo per la testa di guardare gli uomini di 40 anni, piaceva molto a Lucio e spesso lui le aveva rivolto la parola nella pausa o aveva cercato di fermarla alla fine del turno. Lei non ci aveva badato, ma Lucio si era fatto più insistente e gli ultimi giovedì le aveva detto che ci doveva pensare ad uscire con lui una volta e che l’avrebbe portata al night di Abano a sentire della bella musica ed a ballare. Lei lo aveva liquidato con due parole sbrigative e aveva preso in fretta la sua bici per tornare. Dopo qualche giorno, il giovedì seguente, Lucio aveva ricominciato con le attenzioni e le aveva fatto capire con insistenza che se lei non lo seguiva su in ufficio, sarebbero stati cavoli amari. E lei non ascoltò e tornò in fretta a casa, pedalando a più non posso. Me lo ricordo perché quella sera rientrò affannata e col fiatone e noi pensavamo che fosse la sua solita gara con la Evelina a chi faceva prima.
Vincenzina sapeva che nel suo lavoro era sempre precisa ed era una delle più brave lì al laboratorio e se ne vantava con le colleghe nella breve pausa del pranzo, mentre si mangiava il panino portato da casa con quelle del suo turno e la Gina e la Meris; insomma non aveva nulla da temere e paron Bepi l’aveva sempre trattata bene e aveva promesso che fin che c’era lavoro per la ditta, lei sarebbe stata là da lui. Di questo episodio non fece parola con nessuno e credeva che Lucio l’avrebbe smessa di fare lo scemo e che si sarebbe stancato e non sarebbe successo nulla.
Quel giovedì, Vincenzina tornò più tardi del solito, ma ci disse che si era trattenuta con le colleghe, specie con la Gina e la Meris che stavano aspettando la corriera per Este. Eppure al rientro corse subito in bagno senza salutarci, sbattendo la porta; io e mia madre, che stavamo già a tavola perché si erano fatte le nove passate, sentimmo un tramestio e uno sciacquare d’acqua e poi Vincenzina tornò tutta cambiata e profumata come non faceva mai per mettersi a tavola. Capimmo che era successo qualcosa e la storia di Meris e Lina non c’andava proprio giù. Non volle andare oltre a parlare: sorbiva lentamente la minestra che mamma era solita preparare per le nostre cene invernali e se ne andò nella sua camera, girando due volte la chiave. L’indomani, come tutti gli altri giorni, Vincenzina tornò al laboratorio, ma ci sembrò cambiata e ogni giorno più strana, anzi forse è meglio dire preoccupata e sempre più cupa. Però non parlava e non diceva nulla. Aveva sempre il suo sorriso, ma ora affiorava tra le labbra un po’ più spento, a volte addirittura con una smorfia.
Solo qualche settimana dopo, mia sorella si decise a parlarci e ci disse tra le lacrime e i singhiozzi che il Lucio l’aveva bloccata all’uscita del cancello della ditta con la scusa di farle firmare un documento per i contributi, Vincenzina lo aveva seguito attraverso il settore B, se lo ricordava bene perché vicino alla postazione della Meris, lui l’aveva bloccata e l’aveva costretta ad abbracciarlo; poi l’aveva portata quasi di peso in ufficio e l’aveva baciata e toccata li sotto e l’aveva stretta forte ai polsi e lei aveva avuto molta paura…Il resto ce lo narrò a pezzi, interrompendo il pianto e asciugandosi le lacrime col dorso della mano.
Mia madre ed io per giorni pensammo alla denuncia e di andare a dirlo ai Carabinieri e svergognare i Buson che avevano un figlio degenere e violento. Vincenzina all’inizio non voleva, ma la convincemmo e affrontò tutta l’odissea del processo con grande coraggio.
Ora Vincenzina collabora nello studio con me, è una delle segretarie dell’ufficio più brave ed affidabili, è una bella donna, ancora sorridente e madre di tre splendidi figli. Lucio dopo il processo e la vergogna subita in paese e soprattutto l’ira di padre Bepi, se n’ è andato in Romania da qualche anno a tentare di mandare avanti la ditta che Bepi gli ha affidato, pur di non vederselo più tra i piedi.
La fabbrica ora è chiusa e quelle rare volte che ci passiamo davanti per andare a mettere due fiori dove riposano papà e mamma, io e Vincenzina ci giriamo dall’altra parte, orgogliose però che sia stata fatta giustizia e che la nostra storia, qui chiusa in queste poche righe e foto, serva alle donne di oggi e a chi la voglia leggere per vivere con coscienza e coraggio la propria vita e il proprio lavoro.
Bruna Mozzi
Foto di Danilo Cazzaro
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