This is not Paradise, ciak a Beirut

Sono iniziate a Beirut le riprese di This is not paradise, documentario che parla della condizione delle donne immigrate in Libano per lavorare. Questo è il diario di Gaia Vianello. Per contribuire alla realizzazione di This is not paradise fa una donazione

SAM_0097Beirut, luglio 2013. Torno qui dopo due anni, insieme a Lisa, Matteo e Marco, che la visitano per la prima volta e riescono a trasmettermi le sensazioni del primo impatto. Tutto mi sembra uguale a come l’avevo lasciato. Fatta eccezione per qualche decina di vecchie case liberty degli anni venti che sono state rase al suolo per lasciare spazio a palazzi in cemento di trenta piani.

E fatta eccezione per 1.200.000 profughi siriani che sono entrati in un paese che conta  4.000.000 di abitanti e si sono dispersi in giro per il Libano, in accampamenti di fortuna o ospitati da famiglie libanesi, perché il governo rifiuta l’allestimento di campi profughi ufficiali ed attrezzati, nel timore che quest’emergenza si trasformi nella normalità, com’è successo per i campi profughi palestinesi.

Tutto è rimasto uguale a Beirut: nel caldo di luglio i libanesi si riversano negli esclusivi resorts lungo la costa, cenano nei lussuosi ristoranti di Gemayze e Ashrafieh e girano su Hammer e Porsche Cayenne con l’aria condizionata al massimo. Per le strade ti accompagna il solito rumore assordante dei clacson dei taxi.

Ieri mi sono trovata con un amico libanese e chiacchierando me l’ha confermato anche lui: “É sempre uguale qui. La situazione è tranquilla. Si, ci sono stati un po’ di giorni di tensione a Tripoli, ma adesso tutto è rientrato”. Gli ho ricordato dell’esplosione di quale settimana fa a Dakhie, quartiere sciita della capitale.

“Ah, si. Me ne ero dimenticato. Ma adesso è Ramadan, tutto è tranquillo. Poi quando finisce vedremo.”.

In Libano la precarietà è la normalità.

In questo contesto abbiamo iniziato le riprese di “This is not paradise”, documentario sulle donne di servizio migranti in Libano.

Avere una domestica in casa è un fenomeno che si è diffuso in maniera capillare in questo SAM_0100paese, in cui l’apparenza sembra essere uno dei valori predominanti, diventando quasi una sorta di status symbol, come il possesso di un SUV o di vestiti firmati. A differenza dei SUV e dei vestiti firmati una domestica migrante è una spesa alla portata di tutti: gli stipendi mensili vanno dai 150 $ ai 600 $, a seconda del paese di provenienza. Le donne provenienti dal Bangladesh sono quelle che costano meno, poiché giovani e “poco istruite”, mentre quelle meglio retribuite sono le Sri-Lankesi, con un’esperienza lavorativa maggiore, poiché il governo dello Sri-Lanka proibisce la migrazione delle donne sotto i trent’anni.

In ogni caso, anche se non ci si può permettere di pagare queste cifre, non è un problema: si assume una domestica e poi non la si paga. Il sistema legale libanese che regola il lavoro dei migranti, la kafala,  ha creato delle falle che lasciano spazio a questo genere di abusi.

La kafala è una sorta di sponsorizzazione dei lavoratori domestici migranti, che affida al datore di lavoro la tutela legale del proprio dipendente. Alle donne che arrivano qui vengono requisiti il passaporto e il permesso di soggiorno. Questo comporta ovviamente una totale perdita di libertà per le donne di servizio migranti, legate a doppio filo ai propri datori di lavoro, i quali, in molti casi, ne approfittano per commettere abusi, che possono andare dalla violenza psicologica fino ad arrivare alla violenza fisica e sessuale.

Il perpetrasi di abusi e l’impossibilità di trovare una via di fuga ha portato negli ultimi anni a molti suicidi, fino ad arrivare – secondo un rapporto di Human Rights Watch del 2008- ad uno la settimana.

Questi numeri hanno cominciato a destare l’interesse della stampa locale, che ha finalmente deciso di coprire il fenomeno, e soprattutto ha dato una spinta al risveglio dell’opinione pubblica e della società civile libanese. Negli ultimi anni sono nate associazioni, come Anti-Racism Movement e  Migrant Workers Task Force, che raggruppano giovani libanesi e comunità migranti in un’azione di sostegno delle donne lavoratrici migranti e di lobbying nei confronti delle autorità libanesi per l’abolizione della kafala e per una riforma della legge sui lavoratori migranti.

In questi giorni abbiamo incontrato alcune di queste associazioni – Migrant Workers Task Force, Anti-Racism Movement e KAFA – per farci dare testimonianza diretta del loro lavoro e per farci raccontare come, secondo loro, la situazione riguardo alla questione delle donne lavoratrici migranti stia evolvendo.

Attraverso queste associazioni abbiamo conosciuto Rahel Zegeye, giovane donna etiope, arrivata qui 14 anni fa per lavorare presso una famiglia libanese. Per sei anni ha vissuto le difficoltà affrontate da molte ragazze che arrivano qui per lavorare come collaboratrici domestiche: privazione di riposo quotidiano e settimanale, privazione di cibo e mancato pagamento del salario. Nel 2006, quando Israele ha cominciato a bombardare il Libano, la famiglia presso la quale lavorava si è rifugiata sulle colline, lasciando Rahel a Beirut e, per liberarsene in fretta, l’ha ingiustamente denunciata per furto alla polizia. Dopo una settimana passata in carcere Rahel è uscita per insufficienza di prove e, grazie ad una sua compatriota, ha trovato lavoro presso un anziano signore. Questo nuovo lavoro si è rivelato per lei provvidenziale: non solo il suo nuovo datore le ha da subito riservato un trattamento umano, rispettando le regole minime dei rapporti di lavoro, quali i giorni di riposo e il pagamento regolare dei salari, ma l’ha anche supportata nel suo progetto: quello di scrivere e dirigere un film che raccontasse la situazione delle donne di servizio etiopi in Libano.

Rahel ha lavorato per due anni, investendo tutti i suoi risparmi, alla realizzazione di “Beirut”, documentario che è stato proiettato pubblicamente a Beirut nel febbraio 2012.

Attualmente la regista etiope sta lavorando alla realizzazione di un nuovo lungometraggio sullo stesso tema, tratto da una pièce teatrale che ha scritto e diretto e che è stata portata in scena lo scorso inverno all’Università Americana di Beirut.

Sul set del film abbiamo trovato, oltre ad una decina di amiche etiopi che Rahel ha coinvolto come attrici, tre giovani studenti libanesi, che interpretavano – con realismo e un po’ di autoironia – i ruoli dei datori di lavoro e dei rappresentanti delle agenzie di collocamento locali. Segno che forse a Beirut non è sempre tutto uguale.

 Gaia Vianello

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