Dubai: meglio il carcere della strada
“Non è tutto oro quel che luccica”, per quanto scontata, è la frase che più si addice alle situazioni di prosperità che rivelano lacune più o meno pesanti. Nella dorata e adamantina Dubai, tutto ci potremmo aspettare (o quantomeno così ci verrebbe da pensare) tranne la storia di una famiglia di immigrati affidata completamente all’amore della gente comune, respinta di fronte alla richiesta di “carcerazione volontaria” pur di avere un tetto sulla testa e pasti caldi garantiti.
Hussain, pakistano, lavorava come operaio per poco più di 300 euro al mese in un’azienda, godeva di passaporto e visto regolare per motivi di lavoro e riusciva a sopravvivere con poco, come migliaia di connazionali impiegati e sottopagati in quel di Dubai. Tutto nella norma, fino a quando nel 2007 conobbe la nipote del suo titolare, Gurinder in visita all’azienda dall’India. Si innamorarono e decisero di frequentarsi, per poi sposarsi poco dopo. E qui iniziarono le sventure per questa coppia, oggi arricchita dalla presenza di due figli, uno di 2 e uno di 4 anni, nonché un altro in arrivo.
Hussain, musulmano, si era innamorato della donna “sbagliata”, a detta del titolare nonché zio di lei. Lei, Gurinder Kaur, per amore si convertì dal Sikhirismo all’Islam cambiando il nome in Zainab e questo fatto le portò l’odio della famiglia, e ad Hussain il licenziamento e la richiesta di estradizione. Grazie a qualche lavoretto, i due son riusciti a sopravvivere e sfamare i due figli, arrivati tra il 2008 e il 2010, ma oggi non sanno più a chi e dove chiedere aiuto. Lavoro non ce n’è, nessuno è disposto ad assumere Hussain al fine di regolarizzare la situazione legale dell’intera famiglia. Non c’è più un tetto, non c’è più cibo. Zainab, incinta di otto mesi, e i due figli, non possono certo sopportare la fame per oltre 16 ore, come raccontano all’inviato del quotidiano Xpress. E da lì il gesto estremo di Hussain in un distretto di Polizia: “Carcerateci, ve ne prego. Ho una moglie incinta e due figli piccoli da sfamare”. Niente da fare. Respinti e costretti a dormire due notti in un parco, ospiti poi qua e là da conoscenti impietositi, ma non potrà durare molto. O Hussain riceverà un’offerta di lavoro e la situazione verrà riportata nella legalità, o il rischio di espulsione si realizzerà.
In tutto questo, mi chiedo: la ricca Dubai, con le sue severissime leggi, non prevede l’accoglienza e l’aiuto agli immigrati ben intenzionati? Perché alle carcerazioni facili nei confronti di chi si macchia di qualsivoglia reato, non si affiancano politiche di aiuto a chi ha provato a costruire una vita a migliaia di chilometri da casa?
Ricordo che nel mio mese di permanenza ero rimasta stupita dall’assenza di mendicanti, ma altrettanto impressionata dalla quantità di immigrati lavoratori sottopagati. Nella curiosità di capire quali prospettive lavorative potesse offrirmi quella Terra dorata, leggevo le offerte di lavoro nei giornali e l’80% era rivolto esclusivamente ad immigrati filippini, indiani, pakistani, bangladesi, con retribuzioni che in Italia si avvicinano ai rimborsi spese ai giovani stagisti, con la differenza che lì si trattava di lavori full-time e spesso di fatica.
Leggendo la storia di Hussain e Zainab ho capito che, con grande probabilità, i poveri che non vedevo per strada (poiché mendicare è reato), si trovavano ospiti di qualche buon cuore, o magari alle porte di un distretto di Polizia a chiedere aiuto. Tutto questo mentre, sempre a Dubai, i carcerati si lamentano poiché, a causa di qualcuno che lo utilizzava per scrivere sui muri, il caffè è stato bandito dal menù. Hussain e Zainab non si sarebbero certo lamentati di questo, ma a differenza degli altri, non avevano una buona ragione per essere rinchiusi.
Immigrazione, povertà, clandestinità. E molte volte anche impossibilità di rientrare nel proprio Paese a causa di scelte che portano la famiglia d’origine a rinnegarti e minacciarti di morte. Storie di quasi tutti i giorni anche nella nostra Italia. Dubai che non aiuta una famiglia di immigrati in difficoltà, ma si preoccupa di bandire il caffè ai carcerati. Non lo so, qualcosa non mi torna. Dove sono finite l’integrazione, l’ordine, la multiculturalità che avevo notato e da cui ero rimasta fortemente impressionata? Un motivo in più per tornare e per salvare la vacillante storia d’amore tra la ragazza sotto il metro e sessanta e gli altissimi grattacieli.
Elena Griffante