Cuccette per signora, essere donna in India

Nel romanzo ‘Cuccette per signora’, di Anita Nair, sei donne indiane, di età ed estrazione sociale differenti,  si ritrovano per caso nello stesso scompartimento del treno. Durante il viaggio ognuna racconta la storia della propria vita, nel tentativo di rispondere alla domanda posta inizialmente dalla protagonista: è possibile per una donna vivere da sola? Il libro apre una finestra estremamente reale su vari aspetti della condizione femminile in India: il matrimonio, i rapporti con il marito e la famiglia, il lavoro, l’appartenenza di casta, la sessualità. Le pagine di questo romanzo mi ha riportato prepotentemente alla memoria la mia esperienza indiana. Due anni fa ho avuto l’immensa fortuna di vivere per due mesi con una famiglia indiana a Jodhpur, nel Rajasthan occidentale, dove ho potuto osservare quotidianamente cosa significhi essere donna in India.  La mia ‘mamma indiana’, Deep, aveva solo un paio d’anni più di me, sua suocera Kanta avrebbe potuto benissimo essere mia madre. Forse è per questo che le loro storie e il loro modo di vivere mi hanno tanto colpita.

 

In India una donna non può andare in giro come le pare: ogni singolo elemento del suo abbigliamento ha un significato preciso. Il numero dei braccialetti, le cavigliere, gli anelli da piede, la riga rossa in mezzo alla scriminatura dei capelli, il bindi sulla fronte, il colore e la stampa del saree, sono tutte cose che indicano chiaramente se una è sposata, vedova, nubile, madre, e a che casta appartiene. Le ragazze di buona famiglia non girano mai da sole, ma sono accompagnate sempre da un degli uomini di casa. Anche da sposate, al massimo vanno in giro con la suocera, la cognata o meglio ancora con i bambini, così che tutti possano vedere che è una brava madre di famiglia. All’inizio non riuscivo proprio a capire perché, per andare al supermercato all’angolo a prendere una pacchetto di riso, Deep dovesse portarsi appresso il bimbo di un anno e mezzo in braccio e la bimba di tre per mano.

 

Quando la suocera è in visita (e, nella mia famiglia, le visite di Kanta duravano dai 15 ai 20 giorni al mese), una brava nuora indiana lascia che sia la madre di suo marito a decidere cosa comperare e  cosa cucinare, a tenere le chiavi di casa e scegliere i vestiti dei nipotini. Kanta aveva la sua stanza, corredata di telefono, tv, bagno privato ed un armadio pieno di saree e gioielli sempre chiuso a chiave. La chiave se ne andava via con lei, quando la visita terminava. La suocera chiama ed invita chi e quando vuole a casa del figlio. Se viene in visita un parente uomo più anziano, la nuora tiene il capo coperto e non deve mai alzare lo sguardo. Un pomeriggio, di ritorno dal lavoro, invece del solito sgambettare in giro per casa dei bimbi, li avevo trovati chiusi in camera mia con Deep, vestita con un elegante saree fucsia invece del solito completo da casa. In salotto, il marito e la suocera conversavano allegramente con un signore di mezza età, il fratello di Kanta. Deep aveva servito il chai e gli stuzzichini, e si era ritirata con i figli. Solo quando fu sicura che lo zio del marito se ne fosse andato, uscì dalla mia stanza con i bambini.

 

L’aria sottomessa di Deep cambiava radicalmente quando si recava in visita dalla sua famiglia.

Lei, unica sorella di due fratelli, aveva fatto un ottimo matrimonio in una sottocasta superiora alla sua. Le due cognate la trattavano con rispetto e quasi deferenza. Ricordo che, al matrimonio della cugina di Deep, la sua babi, la moglie di suo fratello maggiore, era andata personalmente a prenderle da mangiare i cibi migliori al buffet ed aveva servito lei e Kanta. La povera babi si affannava in giro per far sì che la famiglia di Deep avesse il tavolo migliore e non le mancasse niente. Kanta, che guardava tutti un po’dall’alto in basso, a un certo punto mi si era avvicinata con aria confidenziale e mi aveva detto, con malcelato orgoglio e guardandosi in giro con un’aria un po’schifata, che ‘nella famiglia di Deep nascevano tante femmine’.

 

Nonostante certi aspetti per me incomprensibili della sua sottomissione alla suocera ed al marito, Deep era stata molto fortunata ed era sicuramente una donna felice. Lei e suo marito Vijai si erano sposati per amore. Erano andati contro il volere delle rispettive famiglie, perché appartenevano a due sottocaste diverse. Ci avevano messo quattro anni, ma erano riusciti a spuntarla. Inoltre, essendo entrambi originari della stessa città, Deep viveva a pochi minuti di auto dalla sua famiglia e poteva fare visita a sua madre ed ai fratelli ogni volta che voleva. Quando Kanta non c’era, andava a fare shopping con la sua babi  e poteva perfino invitare fratelli e consorti a cena a casa sua.  Ma la normalità, per una ragazza indiana, è quella di sposare un perfetto sconosciuto, scelto dai genitori in base alla casta, famiglia e quadro astrale, e magari trasferirsi a kilometri di distanza da casa.

 

Non dimenticherò mai la moglie del gestore della mia guest house a Bundi, posto incantevole ma sperduto nel cuore del Rajasthan, dove mi ero recata per un paio di giorni di vacanza. La signora (che aveva allora 29 anni, un figlio di 9 e una figlia di 4) era andata sposa a 19 anni ad un perfetto sconosciuto, scelto per lei appositamente dai suoi genitori. Aveva lasciato la sua casa a Jaipur, la capitale, per trasferirsi in una remota cittadina di provincia. Costretta a vivere con una suocera con cui non riusciva ad andare d’accordo, mi aveva confessato che, dopo pochi anni di matrimonio, era perfino scappata di casa con il suo bambino per tornare a Jaipur. Non so con che coraggio l’avesse fatto, ma ovviamente la fuga era durata poco ed il marito se l’era riportata a Bundi. Per lo meno, si erano trasferiti in un’altra casa, lontano dai suoceri. Dopo 10 anni, ancora non riusciva a sentirsi a casa a Bundi ed aveva una paura matta a girare per quelle quattro strade, mentre non ne aveva mai avuta a Jaipur, che sarà stata almeno dieci volte più grande. La guardavo e pensavo a me, a tutti i miei viaggi in solitaria, al mio sentirmi a casa in almeno cinque posti diversi al mondo anche se ci avevo vissuto solo pochi mesi, e non mi sono mai sentita tanto fortunata.

Barbara Zamboni

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