Alcoa, fine di un sogno industriale di 40 anni fa
Per capire perché Alcoa rischia di chiudere, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo di 43 anni. Il 9 aprile del 1969 il Governo italiano, con un apposito decreto, stabilisce che Ottana, nella Sardegna centrale, è una “zona di interesse industriale”. Quel documento, firmato dal ministro Paolo Emilio Taviani per un esecutivo interamente democristiano e guidato da Mariano Rumor, è il sigillo sul boom industriale che in quei mesi sta scuotendola Sardegna. La grande chimica ribolle nell’isola calderone da nord a sud: nascono i poli di Porto Torres, Ottana che da sola arriva a superare i tremila operai, poi Macchiareddu (Cagliari) e la raffineria di Sarroch nella parte meridionale. Nel Sulcis Iglesiente, a Portovesme, l’Efim (partecipazioni statali) ed Eurallumina (società con dentro gruppi svizzeri) stanno realizzando un ciclo integrato della metallurgia, con una serie di fabbriche che trattano i minerali in quasi tutte le fasi della produzione, dalla prima fattura ai semilavorati.
In appena due anni, nel 1972, la quota di occupati nell’industria nell’isola tocca il 33 per cento, contro il 23 di venti anni prima.
In fondo, capitali pubblici e privati non fanno che sfruttare un’abbondanza ed una vocazione economica industriale che già dalla preistoria erano conosciute. Le miniere di argento, piombo e zinco erano state sfruttate dai nuragici prima, poi da fenici, cartaginesi e romani, i quali nell’isola trovavano anche abbondanza di carbone per scaldare i forni dei metalli, acqua in quantità da sorgenti e torrenti (la Sardegnaè ricca di fonti, non è mai stata arida come si crede), poi vento forte e quotidiano per fare andar le vele dei trasporti, quindi una mano d’opera locale robusta ed esperta, da sempre abile nello scavo e nella lavorazione dei metalli. C’è tutto per l’industria antica e i metalli sardi per secoli viaggiano per il Mediterraneo, acquistati e venduti in tutti i maggiori porti.
Nel 1969 la Sardegnavive una forte crisi sociale. In quattro anni, nel Nuorese, vi sono stati 34 sequestri di persona, circa 200 omicidi mentre i latitanti sono 130. Così il parlamento istituisce una commissione di inchiesta sul banditismo che, presieduta dal senatore Giuseppe Medici, giunge alla conclusione che portare la grande industria in Sardegna darà lavoro, cambierà la mentalità agropastorale e risolverà il problema del crimine.
In quegli anni, e già da qualche tempo, gli investimenti si moltiplicano e sbarca anchela Sir di Nino Rovelli, il finanziere che in breve diventerà padrone dell’isola: diventano di sua proprietà entrambi i quotidiani sardi in teoria concorrenti, il Cagliari Calcio e la squadra di basket del capoluogo, anch’essa in serie A. Imponenti dighe vengono realizzate, tra le più grandi d’Europa e, grazie a una serie di centrali ad acqua o a carbone, in breve la Sardegnada sola arriva a produrre un terzo del fabbisogno elettrico dell’Italia intera.
L’operazione sembra conclusa, ma la programmazione democristiana non aveva considerato due fattori. Il primo è il profondo e antico radicamento in Sardegna del movimento operaio. Già nel 1904, l’uccisione a Buggerru (nel Sulcis) da parte dei soldati italiani di quattro minatori che protestavano per avere migliori orari di lavoro scuote l’intero Paese e, pochi giorni dopo, i sindacati proclamano il primo sciopero generale nazionale nella storia d’Italia.
Il secondo fattore trascurato da Roma è lo sconvolgimento degli equilibri politici. Pastori e contadini devono diventare operai e così vengono mandati a Genova e Torino per imparare il mestiere con alcuni corsi negli stabilimenti del Nord. Ma qui i futuri operai entrano in contatto con il Pci e la Cgil, capiscono di essere pagati meno e trattati peggio dei colleghi del Settentrione e, appena rientrati ad Ottana, occupano la fabbrica, con le donne che dai paesi vicini vanno a portare cibo e abiti puliti ed i parroci che suonano le campane per chiamare la popolazione a sostenere la lotta operaia. Capita così che questi allevatori e coltivatori assumano una coscienza politica che conduce a risultati imprevisti: il Pci cresce nei voti, mette all’angolo la Dce la relega all’opposizione nel Consiglio regionale. L’autogol dei democristiani è completato dal fatto che dei circa tremila operai di Ottana, più di quattrocento diventano sindaci, assessori o consiglieri comunali e sindacalisti. Le zone agrarie bianche diventano industriali e rosse.
Cercando di stabilizzarla,la Dc ha perdutola Sardegna, tra lo stupore del vecchio Segni e di Cossiga, già protagonisti della scena politica nazionale. Storie analoghe riguardano il Sulcis e gli altri territori dove l’industria si insedia. Decine di migliaia di persone lavorano nelle fabbriche, i cicli sono integrati.
Poi però arrivano gli strani anni Ottanta. Carbone e metalli vengono surclassati dalle materie plastiche, mentre le grandi multinazionali si impossessano del meccanismo dei prezzi e cominciano quelle politiche oggi proseguono. Mentre lo Stato dismette con Eni, Enichem, Iri ed Efim, gruppi privati americani, svizzeri, francesi e poi anche russi acquistano fabbriche in Sardegna (ma non solo) spesso con il solo obiettivo di chiuderle per eliminare un concorrente e ridurre la produzione mondiale, così da riportare su i prezzi. E’ quanto sta facendo oggi Alcoa: il prezzo dell’Alluminio è crollato e il gigante Usa, che da solo sforna il 50% della produzione mondiale, vuole fermare Portovesme per poter far circolare meno materiale e farselo pagare di più.
Capita qualcosa di simile anche con la chimica e l’energia. Enichem prima e Syndial poi (gruppo Eni) sin dagli anni Ottanta smettono di investire nella ricerca: la chimica sarda e italiana diventano obsolete e costose per scelta governativa, ed ecco le chiusure a catena a Porto Torres, Cagliari e, nella Penisola, a Marghera.
Forse più folle ancora è quanto accaduto all’energia. Terna ed Enel, società pubbliche, producono e comprano corrente in Sardegna ma la immettono nel “mercato” con risultati paradossali: in Sardegna la corrente “sarda” viene fornita a un prezzo del trenta per cento più elevato rispetto alla stessa corrente “sarda” venduta nel resto d’Italia, mentre un sapiente gioco di borsa e di alternanza di produzioni fa credere che l’Italia non sia autosufficiente per l’energia, mentre invece lo sarebbe per quasi il 90% del fabbisogno. Qualche giorno fa Terna ha annunciato che non comprerà più dalla centrale di Ottana, che ora rischia di doversi fermare. E siccome queste produzioni sono a ciclo, la chiusura di una fabbrica ha pesanti ripercussioni sulle altre, come accaduto negli anni passati anche a Marghera.
Tornando ad oggi, nei giorni di Alcoa, a quel giorno di primavera del 1969 appare evidente che allora, pur tra mille contraddizioni ed errori, vi era una scelta di politica economica, industriale, sociale. Oggi non è così: lo Stato svende le fabbriche col solo obiettivo di fare cassa mentre i nuovi proprietari le chiudono per ammazzare la concorrenza e truccare i prezzi sui mercati mondiali.
Marco Mostallino