Ramadan a Dakar
Prima puntata di un fotoreportage dalla Dakar in digiuno. Ogni anno i Baye Fall senegalesi, i sufi della confraternita islamica senegalese murid, preparano tutti i giorni ingenti quantità del particolare speziato e dolce caffè da distribuire al momento della rottura del digiuno. Per rispettare la tradizione religiosa e diffondere un gesto di pace
Sono circa le 16.30, mancano più di tre ore allo “ndogou”: una delle tante parole wolof entrate nella mia testa un anno fa, quando a fatica potevo pronunciarla, e che non avrei mai immaginato potesse diventarmi tanto cara. È con questo termine, che letteralmente significa “tagliare”, che i senegalesi chiamano la rottura serale del digiuno previsto per il mese di Ramadan (“woor”, in wolof). Il sole è alto e colpisce intenso; fa caldo, molto caldo, e io stessa che ho bevuto un quarto d’ora prima sogno nient’altro che un bicchiere d’acqua. Ma Talla sta arrivando con il volto stravolto per un digiuno che in questa parte d’Africa cade da qualche anno proprio durante la stagione più calda; ed io, per solidarietà, non oso lamentarmi. «Assalam aleikum! Naka mou? Tay woor?» («Che la pace sia con te! Allora, come ti va? Oggi digiuni?»), mi saluta Talla, chiedendomi, come tutti gli altri, la stessa domanda ogni giorno dall’inizio del Ramadan. «Nooo!». È la mia risposta spazientita ma scherzosa, mentre mi chiedo per quale motivazione debbano domandarlo continuamente anche a chi non abbracci la loro fede, come se il fatto di digiunare un mese sia la cosa più naturale e normale del mondo. Talla ha portato il grande pentolone di ghisa per preparare il caffè touba, alla cui vista delle dimensioni qualsiasi occidentale appena arrivato in Africa sorriderebbe. Quando anche Abas sopraggiunge per racimolare la legna e accendere il fuoco, finalmente si inizia. «Abbiamo cominciato nove anni fa raccogliendo tra noi pochi soldi e preparando una piccola pentola. Ora siamo cresciuti di numero e forze, e con i soldi che ciascuno di noi è riuscito a risparmiare quest’anno abbiamo iniziato con 70.000 Cfa (108 euro), che però sono bastati per i primi dieci giorni. Ora riusciamo a preparare 2,5 chili di caffè al giorno, che distribuiamo a circa 300 persone. Calcolando anche il prezzo dei quattro chili di zucchero, dei 15 di pane, del burro ecc., arriveremo a spendere alla fine quasi 300.000 Cfa (462 euro) mi spiega Doudou. La cifra mi lascia interdetta, e con la mentalità di una laica calcolatrice occidentale mi metto subito a pensare che cosa avrebbero potuto fare per gli abitanti del quartiere stesso con una tale cifra.
Ma lascio subito cadere il pensiero per tornare a immergermi nel senso dello “ndogou”, non senza ricordarmi di quando, il primo giorno di Ramadan, non ero riuscita a resistere dal lanciare una domanda provocatoria: «Ma perchè lo fate?». «Siamo in Ramadan, le buone azioni che si compiono in questo mese santo verranno ricompensate dieci volte più del normale!». «Ce lo ha chiesto Dio, nel Corano si dice che anche chi non fa il digiuno deve dare qualcosa a chi lo fa, e verrà ricompensato tanto quanto chi digiuna». Sono le prime risposte. «Sì ma aspetta, anche se non avessimo niente in cambio lo faremmo», obietta Badou. «Lo sai che siamo Baye Fall. Noi facciamo le cose con cuore aperto, per donare fino a se stesso. E questo gesto, anche se semplice, è ricco di significato: prova a immaginare di restare un giorno senza bere e mangiare, non poter accedere a acqua e cibo quando finalmente puoi rompere il digiuno, e trovare qualcuno che senza voler niente in cambio ti dà quello di cui hai un bisogno vitale? Cosa senti nel tuo cuore in quel momento?», mi rimbecca Badou. Ed io, ricordandomi dei primi due giorni di digiuno che avevo fatto, e di come il mio cuore si sarebbe riempito di sentimenti di riconoscenza, di fratellanza e di solidarietà se qualcuno mi avesse offerto da bere, colgo tutto perfettamente. Io, che poco prima con la mia mentalità sempre occidentale pronta a criticare e a cogliere i paradossi, a pensare all’ipocrisia di voler fare qualcosa per avere, capisco di colpo cosa voglia dire per loro dare lo ndogou. Badou è riuscito a farmi comprendere la potenza simbolica e l’efficacia reale delle piccole e semplici azioni nel trasmettere valori di condivisione e stati d’animo positivi essenziali per il benessere di ciascun individuo e per assicurare la convivenza pacifica con gli altri, soprattutto in contesti dove la vita è più dura e difficile, ma in cui ancora il calore umano e la comunità ti sostiene e dove l’umiltà e la semplicità non sono valori da inseguire e a cui ispirare, ma la realtà in cui vivere quotidianamente.
In quel momento è Doudou a interrompere il flusso dei miei pensieri. «Ehi toubabo, vieni!», mi chiama scherzando storpiando la parola “toubab” che in wolof significa “bianca”, sapendo perfettamente quanto la detesti. «Aiutami», mi dice. È arrivato con i tessuti che serviranno per filtrare il caffè. «Si chiama “malika”, è un cotone che deve essere abbastanza resistente da tenere il peso del caffè, ma non troppo perchè deve filtrare l’acqua», mi spiega mentre insieme annodiamo la stoffa intorno a due secchi. Intanto Talla torna dalla boutique. Ha in mano tre sacchetti neri di caffè in polvere già miscelato con la spezia che ne dà il forte e caratteristico gusto, il “diare”, che subito si appresta a svuotare sui tessuti che abbiamo appena sistemato. È lui, il cui mestiere quotidiano è proprio quello di preparare e vendere il caffè touba, che mi svela finalmente l’origine della bevanda. «Proviene dalla Guinea e dalla Costa d’Avorio, ma lo si trova anche in altri Paesi dell’Africa Occidentale. È Cheikh Amamdou Bamba che l’ha portato qui in Senegal, al ritorno del suo esilio in Gabon. I francesi lo avevano portato lì per ucciderlo. E così volevano fargli bere questo caffè in cui avevano messo una quantità di veleno uguale a sette volte quella sufficiente per far morire un cammello. Dio ha ordinato a Cheikh Amadou Bamba di berlo e poi portarlo in Senegal». In quel momento sono grata a Talla per avermi aggiunto un tassello in più alla storia di questa santa figura venerata da gran parte dei senegalesi, e di cui stavo giusto cercando di saperne di più districandomi tra lo scarso materiale scritto e in francese in circolazione, gli atti di vita e gli aneddoti nelle audio-cassette o nel canale radio di Lamp Fall in un wolof che mi rammarico di non comprendere ancora, e i racconti dei miei amici. Vissuto nella seconda metà del XIX secolo, Cheikh Amadou Bamba è il fondatore del muridismo, la più conosciuta confraternita musulmana senegalese, nonchè la più grande corrente mistica islamica dell’Africa Subsahariana. Dopo aver lasciato tutto per trascorrere una vita sull’imitazione del Profeta, promulgando una dottrina che pone l’accento sui valori della pace e del lavoro, ha istituito la città santa di Touba, da cui il caffè prende il nome, e dove sorge la più grande moschea dell’Africa a Sud del Sahara che ogni anno attira per il Gran Magal (pellegrinaggio) più di due milioni di senegalesi, arrivando a essere la seconda meta più venerata di pellegrinaggio islamico dopo la Mecca. Soprannominato lui stesso Serigne Touba, Cheikh Amadou Bamba ha dovuto affrontare le persecuzioni, gli esili e gli imprigionamenti imposti dai colonizzatori francesi che cercavano di imporre i valori occidentali sul territorio e di ostacolare una voce ostile al potere coloniale.
Leggi la seconda puntata del reportage di Luciana De Michele su Assaman