Il Nilo, la terra rossa e il gessetto: atterrare a Juba
La prima volta che sono atterrata a Juba non era ancora la capitale del Sud Sudan, o forse lo era, ma il Sud Sudan non esisteva, o meglio, esisteva ma non era il 54° stato d’Africa. L’indipendenza sarebbe arrivata ufficialmente almeno un anno e mezzo dopo.
La prima volta che si atterra a Juba non si scorda mai. Prima di toccare il suolo l’aereo sorvola per ore una distesa sterminata di terra rossa. Dall’alto si vedono piste geometriche di terra battuta che puntano dritte verso l’orizzonte per centinaia di chilometri. Lo sguardo rimane fisso in quel vuoto alla ricerca di un segno: la nuvola di polvere alzata da una macchina in corsa, il punto bianco una carrozzeria, il tetto rotondo delle capanne di un villaggio, e ti trovi ad immaginare un uomo che da qualche parte sta attraversando quella terra senza paesaggio, come fosse il primo esploratore di una improbabile luna rossa.
Poi improvvisamente il Nilo. I colori cambiano, la terra brulla si alterna a brandelli di verde intenso, acquitrini, un’altura rocciosa, capanne, sentieri sempre più fitti che si trasformano in strade e la striscia d’asfalto della pista d’atterraggio. L’aereo atterra, si apre il portellone e si scende sulla pista in ordine sparso, accecati dal sole e soffocati dal vento caldo. Da qualche parte un cartello: Benvenuti a Juba!
La procedura è semplice: si entra nella stanza degli arrivi e ci si mette in fila con il passaporto e il visto in mano. Sul mio c’è scritto che sono un missionario alto due metri, di sesso maschile, ma nessuno sembra farci troppo caso. Comunque la mia foto è pinzata in un angolo ed il timbro attesta in modo indiscutibile la validità del documento. La stanza è divisa in due da un bancone davanti al quale si aspettano i bagagli in arrivo dalla stiva. Il personale addetto solleva la tua valigia e quello che devi fare è semplicemente urlare abbastanza forte da sovrastare le altre voci e sventolare le braccia per attirare l’attenzione. L’addetto ti vede, porta la valigia verso la tua direzione, i passeggeri in attesa nelle prime file la sollevano e la fanno fluttuare sopra le proprie teste verso la tua direzione, passandosela di mano in mano come un cantante che si è appena lanciato dal palco e viene portato in trionfo dal pubblico. La valigia ondeggia, sobbalza ma procede fino a cadere tra le tue braccia. Poi ti fai largo verso il banco del controllo e mostri le tue cose all’uomo in mimetica azzurra che se è soddisfatto chiude tutto e fa una croce con il gessetto, in bella vista. A questo punto sei autorizzato a varcare la soglia, fuori Juba ti aspetta.
L’ultima volta che sono atterrata a Juba era la capitale di un nuovo stato: il Sud Sudan. Lo si percepiva soprattutto dai dettagli: affianco al solito stanzone che funge da aeroporto stavano sorgendo i pilastri della nuova monumentale struttura, sulla pista d’atterraggio uno striscione patinato ti accoglieva orgoglioso: “Benvenuti in Sud Sudan” e la nuova bandiera, sventolava un po’ ovunque. I bagagli continuavano ad arrivare sullo stesso trattore a rimorchio, ma questa volta, prima di venir raccolti dall’addetto e fluttuare sopra le teste dei passeggeri in attesa, passavano sotto il nuovo metal detector e due nuovi addetti chiacchieravano davanti ad un monitor gesticolando animatamente. Fortunatamente il mio punto di riferimento, l’uomo con il gessetto, era ancora lì.
Giulia Comirato