Una finestra sulla Cina
Ho conosciuto Silvia Sartori leggendo Internazionale lo scorso autunno. Il suo caso, citato da Time Magazine, ben esemplificava le ragioni per cui tanti giovani, dai 20 in su, scappano dall’Italia e dal Nord Est in particolare. Abbiamo iniziato a chattare, io da Padova, lei da Shanghai. A partire da oggi Silvia ci spalanca la sua “Finestra sulla Cina: da ‘made in China’ a ‘written in China’: uno spiraglio su vita e riflessioni quotidiane di un’italiana a Shanghai”. Questo è il suo primo post.
“Simply the best”
Shanghai — Ci risiamo. Sto cercando un nuovo assistente (cinese), quindi altra tornata di CV, altro round di colloqui, finche’ arriviamo alla shortlist finale. Sono rimasti due candidati e la decisione verra’ presa in meno di un giorno.
Ad un paio di ore dall’annuncio della nomina, uno dei due ‘finalisti’ mi manda una mail, in cui decide di “esprimere i propri feelings” (cito) e di cui mi colpiscono due “premesse”. Preciso che la figura che stiamo cercando e’ di semplice assistente-coordinatore e che entrambi i candidati hanno dei CV discreti, nulla comunque di fantasmagorico.
Queste le due osservazioni di partenza che cortesemente vuole portare alla mia attenzione una dei due finalisti:
1) Se la assumessi, io (datore di lavoro) potrei “approfittare” (cito) “della sua esperienza, delle sue risorse e dei suoi contatti precedenti”. Ovvero – continua – la sua assunzione sarebbe utile a noi e, si, beh, insomma anche a lei.
2) “I am confident in my ability and believe in that no one can be compared with my qualifications”, ovvero: Credo nelle mie capacita’ e credo che non ci sia nessuno che possa reggere il confronto con le mie qualifiche. Ricorda qualcosa? Esatto – lo stesso approccio della finalista dell’assunzione precedente.
Fermo restando che:
1- Non intendo generalizzare: si tratta di due situazioni che mi si sono presentate in due diversi processi di selezione. Gli altri candidati hanno partecipato con un atteggiamento molto diverso, e piu’ fedele all’umilta’ e allo stakanovismo tradizionali cinesi, la cui espressione tipica e’ – a mio vedere – quel loro “I’ll do my best” (faro’ il mio meglio) per imparare il prima possibile, per lavorare il meglio possibile, ecc. ecc.
2- Voglio sperare che questa eccessiva proiezione di autostima sia almeno in parte un bluff, fatto nel tentativo probabilmente di proiettare un’immagine di se’ piu’ forte e sicura di quanto sia effettivamente il caso.
3- Parliamo comunque di uno spaccato (minoritario) della Cina ricca, ben educata e metropolitana, in lizza per un impiego da colletto bianco in un ufficio straniero con una certa reputazione. Sarebbe indubbiamente tutt’altra cosa se si trattasse della ricerca di lavoro per uno stabilimento produttivo delle zone industriali del Guandong, per un cantiere edilizio, per una miniera o per un lavoro agricolo delle fasce meno sviluppate.
4- Noi italiani pecchiamo nell’estremo opposto, ovvero in un atteggiamento di sottomissione quasi incondizionata, come se la negoziazione di un lavoro fosse una concessione che ci viene fatta dall’alto e per la quale dobbiamo essere grati, dopo averla “elemosinata”.
Rimane il fatto che si tratta di due prospettive sul mercato del lavoro giovanile, quella italiana e quella cinese, che rimangono per molti versi agli antipodi. E tra cui, francamente, non so quale sia la piu’ moderna e “lungimirante”.
Certo, i cinesi devono fare i conti con la loro solita, congenita, onnipresente, concorrenza intestinta. Uguale: troppe persone per poche opportunita’.
Certo, nello specifico si tratta della cosiddetta generazione dei nati dopo il 1980 ovvero (mantenendo, in buona misura, la premessa n.3) dei “piccoli imperatori”, figli della politica del figlio unico, nati in un benessere mediamente sconosciuto ai loro precedessori.
Certo, la Cina e’ un paese in via di sviluppo mentre l’Italia e’ tra “gli arrivati”.
Pero’: in Italia nessuno, a questo livello di carriera, si sognerebbe mai di presentarsi ad un colloquio facendo affermazioni simili e con la convinzione che proprio queste affermazioni lo aiutino a ‘guadagnar punti’. “Sfrontato”, “sfacciato”, “arrogante” – cosi’ lo si definirebbe probabilmente.
Mi chiedo pero’ anche quanto questa capacita’ di proiezione esterna, non per forza di cose poi supportata dai fatti, questa confidence che si vuole sfoggiare al di fuori, non aiuti anche ad alimentare una “cultura del fare” (contro una del “piangersi addosso”) .
Certo, il rischio e’ di millantare o di vendere fumo, in piccola o gran parte.
Se se ne sanno tirare bene i fili, pero’, questa self-confidence, questa convinzione in se stessi, diventa una forza motrice, un incentivo, un incoraggiamento. Tanto piu’ necessario quando, in momenti difficili, c’e’ bisogno di fare un salto nel buio. O anche solo di saltare piu’ in la’ di dove si era soliti fare.
Cosa che, in tempi e modi diversi, capita di dover fare sia a chi e’ “in via di sviluppo” che a chi e’ gia’ “sviluppato”…
Silvia Sartori