Le sei lezioni della Norvegia

Norvegiana, più che norvegese. Ecco a voi il primo post di Camilla Bonetti. Benvenuta!

La mia avventura di valsesiana nelle fredde lande scandinave comincia il 27 gennaio. Muovo i primi passi in questo nuovo paese sui corridoi di parquet dell’aeroporto di Oslo. Ho messo gli stivaletti neri borchiati perché sono le mie scarpe preferite e quando una cosa mi piace, tendo a ignorarne i lati negativi. In questo caso avrei dovuto pensare che due check in sarebbero stati molto più veloci e comodi senza parti metalliche ai piedi per me, per il mio fidanzato  e per la fila ordinata che si forma alle mie spalle. Capisco subito alcune lezioni base, utili sia per una breve vacanza, sia per una vita qui.

Primo: non si urla. Quello che noi italiani intendiamo come normale tono di voce da dialogo, come quello che emetto per chiedere “Can I have a coffee?” al bar, qui è un urlo. Ci si abitua in fretta, una volta purificati i timpani dall’inquinamento acustico a cui sono stati sottoposti per anni. Qui tutti parlano piano, gli aspirapolveri fanno meno rumore, le ruote dei carrelli non cigolano, gli speaker degli imbarchi non urlano, il volume italico cala inesorabilmente.

Secondo: la neve volteggia nell’aria, ma non cade. Per tutta la durata dello scalo a Oslo una nevicata fitta scende dal cielo senza sosta. Ciononostante le piste di decollo sono pulite come in un giorno di sole. A Malpensa mucchi di neve scura comparivano qua e là, sebbene l’ultima nevicata risalisse a due settimane prima del mio decollo. Mi viene il dubbio che gli Scandinavi abbandonino la propria neve sul suolo italico.

Terzo: i bambini sono tanti, ma insonorizzati. Sul volo Oslo – Bergen conto almeno dieci pargoli di età compresa tra sei mesi e cinque anni. Sono presenti tutti i modelli di fastidio infantile, dal pianto post pappa alle domande esistenziali a ripetizione. I sessanta minuti più rilassanti che si possano immaginare, nemmeno un lamento in fase decollo. Va detto che anche i genitori non fanno rumore, a differenza della costante paranoia italica “Stai attento”  “stai seduto” “non ti sporcare”, sembra che la calma sia contagiosa.

Quarto: l’organizzazione. Atterriamo a Bergen in perfetto orario, troviamo nella sala arrivi uno sportello automatico per cambiare gli Euro in Corone e un punto informazioni da cui prendere un opuscolo contenente mappa, attrazioni, hotel e ristoranti, insomma tutto ciò che potrebbe servire. La navetta per il centro città parte esattamente davanti alla porta da cui usciamo, non dobbiamo aspettare neanche cinque minuti, è lei che aspetta noi, infatti parte ogni volta che un volo atterra.

Quinto: l’ostello. Ho sempre avuto la fortuna di trovare sistemazioni economiche dignitose, ma il Market Gjesthus, l’ostello di Bergen in cui passiamo le prime notti, raggiunge subito la vetta delle mie preferenze. Le stanze sono spaziose e pulite in ogni angolo, faccio la prova del nove controllando sotto il letto, nemmeno un filo di polvere. Per la prima volta non ritraggo schifata l’alluce che esce dall’infradito e per un nanosecondo urta le piastrelle della doccia, perché per la prima volta profumano di disinfettante. La cucina ha una dotazione di pentole e mestoli degna di un catering, ognuno ripone nel frigo gli acquisti scrivendo il proprio nomee la data di arrivo in ostello sulle confezioni e nessuno dimentica di mettere in lavastoviglie ciò che ha utilizzato. La sorpresa maggiore è scoprire che la maggior parte degli ospiti ha un’età compresa tra i 16 e i 20 anni, ragazzi che la sera cenano tutti insieme, poi escono a fare festa nei locali del centro, senza che neanche uno schiamazzo, nemmeno un rumore nel corridoio disturbi la nostra prima notte norvegiana.

Sesto: il corso di norvegese e l’umanità variegata che lo frequenta. Ma questo è un altro post.

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