Nikolić e Srebrenica: il passato che non passa
Per analizzare le affermazioni del neo presidente serbo Tomislav Nikolić su Srebrenica, bisogna, come in tutte le cose balcaniche e non, fare un passo indietro per inquadrare sia il personaggio sia la situazione politica in Serbia, specie alla luce del cambio di presidenza.
Tomislav Nikolić si era candidato quattro volte alla carica di presidente della Serbia: la prima volta alle elezioni del 2003, che furono annullate per mancanza del quorum. Poi a quelle del 2004, infine nel 2008, entrambe perse a favore di Boris Tadić. Nel 2012, la terza sfida contro Tadić si è dimostrata quella fortunata, ma è difficile descrivere Nikolić in poche parole.
Nella sua carriera politica l’unica costante è il cambiamento continuo di posizioni e politiche. Fu il miglior allievo di Vojislav Šešelj, ma alla fine lo abbandonò. Fu avversario feroce dell’UE, ma talvolta diventa suo sostenitore. Oggi dice che i confini interni non sono cambiabili, prima fu grande attore della “grande Serbia”. Contrario all’estradizione dei latitanti a L’Aja, poi si schierò a favore. Una delle dichiarazioni più vergognose resta quella nel 2003, quando all’ex-premier Zoran Djndjć, due settimane prima della sua uccisione, Nikolić gridò: “Se qualcuno di voi nei prossimi mesi vede Djndjć, ditegli che anche Tito prima di morire aveva problemi con la gamba”.
Nikolić fu al potere per un breve periodo, alla fine degli anni ’90 con Slobodan Milošević e cinque anni fa, fu presidente del Parlamento, ma soltanto per cinque giorni. Si vantava di essere stato volontario nella guerra contro la Croazia e di quel periodo lo accompagnano gravi accuse anche se niente è stato chiarito. Pronto a tutto: dallo sciopero della fame alle accuse di brogli elettorali.
Ora, giunto al culmine della carriera, non si smentisce. All’indomani della sua elezione i media tedeschi sottolinearono che il neoeletto presidente Nikolić è “nazionalista”, “figura controversa” e fino a qualche anno fa stretto collaboratore e seguace dell’imputato per crimini di guerra Šešelj. La maggior parte dei giornali tedeschi avvertì che con Nikolić alla guida della Serbia è messo a repentaglio l’orientamento pro-europeo della Serbia. Tutti i media montenegrini, informa il quotidiano serbo Blic, mettono in primo piano la dichiarazione di Nikolić, che lavorerà sul miglioramento delle relazioni tra Podgorica e Belgrado.
Il quotidiano montenegrino Dan valuta che la vittoria di Nikolić rappresenta una svolta per la Serbia, infatti è andato alla Tv del Montenegro per sollevare il problema Srebrenica.
Il New York Times indica che Nikolić potrebbe voltare maggiormente la Serbia verso la Russia. Cita le valutazioni degli analisti secondo i quali Nikolić avrebbe conquistato la gente che affronta difficoltà a causa della caduta del tenore di vita nei tempi in cui l’UE ha perso la sua attrazione, ma Nikolić dovrà adottare misure severe contro il deficit e convincere il FMI a scongelare il credito alla Serbia.
A questa Serbia piace Nikolić, che ha smussato sì i toni del nazionalismo più ringhioso, ma poi lucida i ritratti di famiglia con dichiarazioni come: “Milosevic non era un criminale, ha fatto soltanto molti errori. Karadzic è un mito, una leggenda”. Del resto il famigerato Šešelj, da nove anni in carcere a L’Aja, lo insignì nel ‘91 dell’onorificenza di vojvoda, duce, dei četnici. Cose che non si dimenticano, anche se poi Nikolić ha tradito il suo mentore, abbandonando i radicali serbi, guidati ora dalla moglie di Šešelj, Jadranka, una sorta di Marine Le Pen dei Balcani.
“Toma”, soprannome del corpulento Nikolić, nel ’99 era vice primo ministro di Slobodan Milošević e membro del governo quando la Nato bombardò la Jugoslavia. Era manager di stato ai tempi del maresciallo Tito.
Nel giorno della vittoria sul presidente uscente Tadić, quello che ha consegnato Ratko Mladić al tribunale de L’Aja, ha voluto rassicurare la comunità internazionale, affermando che «la Serbia non devierà dal suo percorso europeo», intrapreso con il traguardo di Paese candidato all’ingresso nell’Unione. Però Nikolić non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo e non c’è dubbio che la politica estera di Belgrado cambierà: con la sua vittoria è tornato il populismo nazionalista favorito anche da una disoccupazione che sfiora il 25%.
Il passato che non passa, questa potrebbe essere la prima reazione al suo successo, in parte imprevisto, ma non così sorprendente nell’atmosfera di crisi profonda che si respira in Europa e non si può certo aspettarsi che “Toma” Nikolić rinneghi il suo passato.
Durante la campagna elettorale, Nikolić ha goduto del sostegno di Vladimir Putin, l’uomo politico di cui si dichiara “ammiratore”. Infatti il neo-presidente serbo ha compiuto la sua prima visita di Stato proprio in Russia: risultato un piano di investimenti in infrastrutture per 800 milioni, che Putin si impegna ad avviare per rafforzare gli storici legami culturali ed economici tra i due paesi “fratelli spirituali”, dopo qualche anno di appannamento. Non è solo in termini economici che Serbia e Russia sono ora più vicine: il paese guidato da Putin è uno dei due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (insieme alla Cina), che non riconosce l’indipendenza del Kosovo e impedisce una presa di posizione netta delle Nazioni Unite sulla questione Kosovo.
La ricomparsa della Russia come attore sulla politica regionale a sostegno di un leader dalla storia tanto controversa e lo scontento diffuso, che deriva dalla perdurante grave crisi economica, potrebbe compromettere i progressi diplomatici e la distensione raggiunti negli ultimi anni. Non dimentichiamo che Putin tiene a galla anche Assad in Siria.
”A Srebrenica non vi è stato genocidio, ma un grande crimine commesso da alcuni esponenti del popolo serbo, che bisogna trovare, processare e condannare”, ha detto Nikolić alla Tv di Podgorica. E a Srebrenica, ha aggiunto, non intende andare, sarebbe inutile essendoci già stato il suo predecessore Tadić, che ha condannato tale crimine, così come lo fatto il parlamento di Belgrado. ”Perché si vuole continuamente riaccendere questo problema?”, ha osservato.
”Negare il genocidio di Srebrenica, che è stato provato dal Tribunale penale internazionale de L’Aja non è un buon metodo per cooperare e ripristinare la fiducia, ma è precisamente il contrario, è fonte di nuovi malintesi e nuove tensioni”, ha detto a Sarajevo Bakir Izetbegović, componente mussulmano e presidente di turno della Presidenza tripartita bosniaca, che ha aggiunto come le parole di Nikolić ”mettono in dubbio le sue affermazioni filo-europeiste”.
Per il nuovo presidente serbo si tratta del terzo “‘incidente diplomatico” in pochi giorni. In un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung ha definito Vukovar, la città martire del conflitto serbo-croato degli anni ‘90 una “città serba”, cosa che ha provocato la dura e contrariata reazione del presidente croato Josipović.
Nel colloquio con il presidente russo Putin una settimana fa a Mosca si è mostrato favorevole al riconoscimento dell’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del sud, le due repubbliche secessioniste della Georgia, provocando reazioni risentite del governo di Tbilisi.
Spetterà a Nikolić, che non nasconde le sue forti simpatie per Mosca, rassicurare i responsabili della UE sull’autenticità delle sue posizioni europeiste nella visita che effettuerà a Bruxelles il 14 giugno.
Ad appesantire l’avvio del mandato presidenziale di Nikolić, vi è stata la nuova esplosione di violenza nel nord del Kosovo, dove in duri scontri fra militari della KFOR e manifestanti serbi sono rimaste ferite non meno di cinque persone, tre serbi e due soldati Nato, sulla cui nazionalità la KFOR non ha fornito precisazioni. Gli incidenti sono scoppiati quando i militari Nato sono entrati in azione per smantellare due barricate erette dai serbi al confine con la Serbia per protestare contro la presenza di poliziotti kosovari albanesi ai posti di confine.
È possibile che i serbi del Kosovo si sentano ora più protetti e spalleggiati con un presidente conservatore e nazionalista (già ultranazionalista), il quale ha più volte sottolineato che la Serbia intende integrarsi nella UE, ma senza rinunciare al Kosovo, «parte integrante del suo territorio».
Questi i fatti e gli antefatti, centrali e periferici, complessi e difficili, che portano a riflettere sul vero significato dell’intervista alla Tv montenegrina, probabilmente più incentrata sulle questioni interne serbe che rivolta all’opinione pubblica europea, della quale Nikolić, per il momento vuol fare a meno per ragioni squisitamente di politica interna. Almeno crede o lo spera. La realtà sarà per lui ben diversa, si spera, sempre che la Russia non intenda avvalersi della rinnovata energia per riprendersi ruolo e spazio nei Balcani e allora il problema cambia dimensioni e prospettive.
Anche su Srebrenica ricaleranno le ragioni di Stato che, come nel 1995, hanno avuto enorme peso sulle vicende relative al massacro degli 8372 mussulmani. Di conseguenza le affermazioni di Nikolić diverranno più di valenza politica, che di analisi storica, campo in cui Nikolić certo non vuole avventurarsi. E Srebrenica resterà sospesa tra passato e presente, un tema giuridico su cui valenti giuristi si misureranno, togliendo umanità al dramma dei morti e alle attese di giustizia dei sopravissuti. Spersonalizzando il tutto tra ragion di stato, schermaglie forensi, politica interna serba e aspirazioni europee, un cocktail che certo non porterà né chiarezza né verità sul più grande massacro di civili dopo la Seconda Guerra mondiale in Europa. Aspetteremo con ansia che si decantino queste prime pesanti affermazioni di Nikolić ed emergano fattori chiari e meno inquinati. Presto saranno vent’anni dal massacro e si spera si aprano dossier e archivi anche sul ruolo di Izetbegović sul fatti di Srebrenica, sui miliziani di Orić, sul vero gioco sporco fatto dall’ONU, sulle ragion di Stato pregresse, ancora molto oscure. Attenderemo seppur con poca speranza. L’unico dato certo sono i morti: 8372. Poca verità, niente giustizia.
Bruno Maran