Il lavoro nello sguardo del giovane cinema. Viaggio fra i film premiati a WTFF2

Un medico di base olandese che, alla veneranda età di 92 anni, continua ad andare di casa in casa a curare i suoi pazienti, a chiacchierare con loro e – quando sono troppo malati per poter parlare – ad accarezzare loro semplicemente una mano per farli sentire meno soli. Un gruppo di adolescenti belgi – tutti di “seconda generazione” – fra le quattro mura di una scuola per elettricisti dove, fra l’installazione di un citofono e le dispute senza fine fra Barça e Real, condividono le frustrazioni per la ripetitività delle lezioni e le ansie per la ricerca di un lavoro che non c’è, e i sogni di avere amore e qualche soldo da spendere. Una moltitudine di lavoratori stagionali del Quebec che si ritrovano da un giorno all’altro tagliati gli assegni di disoccupazione a causa di una riforma del welfare che ha reso sempre più difficile ottenerli, attraverso meccanismi burocratici oscuri e truffaldini.

Sono tre storie di lavoro di oggi, tre storie raccontate nei film vincitori della seconda edizione di Working Title Film Festival, il festival del cinema del lavoro che si è tenuto a Vicenza dal 27 aprile al 1 maggio, giorno della premiazione. Il festival ha portato nella città veneta 22 fra registi, produttori e direttori della fotografia, in gran parte giovani sotto i 35 anni e arrivati da Italia, Giappone, Belgio, Olanda, Grecia e Germania. Autori soprattutto di documentari – sia “classici”, con interviste, sia “di osservazione”, seguendo discretamente i personaggi nella loro vita quotidiana – ma anche di film di finzione, cortometraggi e film di animazione. Come il bellissimo Mechanick, di Margherita Clemente, Lorenzo Cogno, Maria Garzo e Tudor Moldovan, usciti dal Centro sperimentale di Torino e nella cinquina dei finalisti ai Nastri d’Argento 2016.

Per la categoria lungometraggi (film sopra i 50 minuti di durata) il primo premio ex aequo è andato a due documentari. Il primo è Pouding Chômeurs / Requiem for Unemployment (Canada, 2015, 70′) di Bruno Chouinard (classe 1966), che racconta dei lavoratori stagionali del Quebec alle prese con la burocrazia sempre più asfissiante del welfare e la loro lotta contro il lento scivolamento verso la povertà (una dinamica raccontata anche da Ken Loach nel suo ultimo splendido I, Daniel Blake) premiato «per la capacita del regista di relazionarsi con i protagonisti – si legge nelle motivazioni – delineando un movimento verticale che fa comprendere al pubblico il meccanismo della macchina burocratica statale che ha minato la dignità dei lavoratori».

Il secondo è Grands travaux (Belgio, 2016, 101’) di Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes (entrambi nati nel 1987), che racconta un anno di vita scolastica di quattro adolescenti di seconda generazione a Bruxelles. Il film belga è stato premiato «per la purezza formale, per la limpida costruzione delle inquadrature e del montaggio e per la scelta di affidare alle immagini pure – senza una voce fuori campo e senza interviste – il percorso di un apprendimento di un mestiere, facendo emergere in modo asciutto ma vivido le personalità semplici e allo stesso tempo seducenti dei ragazzi che studiano in un istituto professionale».

Fra i cortometraggi (di durata inferiore ai 50 minuti) il primo premio è andato al documentario De Hoeder / The Shepherd (Olanda, 2016, 22’) di Joost Van der Wiel (classe 1983). Il protagonista di questo corto delizioso si chiama Nico van Hasselt, distinto 92enne olandese che con passione e dedizione continua ad esercitare la professione di medico di base. Del film la giuria ha apprezzato «la capacità di rimettere in discussione il modo tradizionale di immaginare il lavoro nella terza età, costruendo un racconto che ha la stessa grazia del suo protagonista novantaduenne». A ritirare il premio c’erail produttore Wout Conijn.

Oltre ai premi principali, la giuria ha scelto di assegnare 5 menzioni speciali. Fra i lungometraggi E torra s’istadi (Italia, 2016, 56′) documentario di Alice Murgia (1994) che ha ritirato il premio, e che racconta un anno di vita e lavora di Cece Resoja, che ad ogni stagione cambia occupazione, dalla raccolta del sughero in estate all’artigianato di riuso in inverno.

Menzione anche a Miewoharu / Eriko Pretended (Giappone, 2016, 93′)film di finzione di Akiyo Fujimura, classe 1990, che ha ritirato il premio insieme al produttore Taro Imai: il mestiere che fa da motore dell’intreccio è assai particolare, la piangente a pagamento durante i funerali.

Terzo lungo segnalato con una menzione è Mare nostro (Italia, 2016, 55′), un documentario di Andrea Gadaleta Caldarola, regista classe 1979, sul porto di Molfetta e sul rapporto quasi religioso fra i pescatori e la popolazione e il mare che dà loro da sempre di che vivere (inquinamento e abusi edilizi portuali permettendo).

Fra i film “corti” (sotto i 50 minuti) si sono aggiudicati una menzione due film molto diversi ma entrambi di grande intensità. Per chi vuole sparare (Italia, 2016, 35′) è un documentario girato come film di diploma alla scuola di cinema Zelig di Bolzano dal regista Pierluca Ditano (1991) e dal direttore della fotografia Giovanni Benini, che ha ritirato col regista il premio. La scena è il mercato all’aperto di Porta Palazzo, a Torino, e il protagonista è il carrettiere Peppino, lavoratore povero, iper-precario e ai confini della legalità, ma animato da una vitalità e una frenesia che gli permettono di superare debiti e difficoltà. Pochi giorni prima di essere proiettato a Vicenza, il film è stato presentato al prestigioso festival del documentario Visions du Réel di Nyon, in Svizzera.

La seconda menzione va a The potato eaters (Belgio, 2016, 31′), un documentario di Ben De Raes (del 1990, uscito dalla KASK di Gent, la stessa scuola frequentata dai registi di Grands Travaux Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes. L’approccio qui è artistico in senso stretto, quasi concettuale: i gesti ripetitivi dei lavoratori del porto altamente automatizzato di Anversa vengono messi in relazione con i disegni preparatori di Vincent van Gogh per il quadro “I mangiatori di patate”, e con le lettere che il pittore scriveva, mentre lavorava a quel quadro, al fratello. Una riflessione, supportata da un’alta qualità della fotografia e del suono, sul lavoro come puro movimento, stato del corpo, raccontato per contrasto con l’alternanza del riposo e del pasto.

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