Soheila e Razi Mohebi, registi e rifugiati a Trento. Una petizione per la cittadinanza
Lo scorso dicembre i registi Soheila Javaheri Mohebi e Razi Mohebi sono stati derubati dell’attrezzatura di lavoro e del certificato di matrimonio, mentre viaggiavano sul treno che li portava da Trento – città dove vivono da rifugiati politici dall’ottobre del 2007 – a Milano. Dovevano raggiungere l’Iran, Paese d’origine della regista, dove avrebbero dovuto girare parte del loro film Una casa sulle nuvole, docufiction autobiografica la cui sceneggiatura è stata insignita del Premio Mutti – Archivio Memorie Migranti al Festival di Venezia del 2016 e che è sostenuto dalla Trentino Film Commission e dalla Cineteca di Bologna. Un furto è sempre un evento nefasto e traumatico. Ma, nel loro caso, ha aggiunto ulteriori difficoltà a una situazione già complicata. Infatti, in quanto rifugiati politici, non possono viaggiare, se non con particolari permessi, non facili da ottenere, soprattutto a causa delle lentezze burocratiche.
«Subito dopo il furto siamo andati a richiedere un nuovo titolo di viaggio, ma quando siamo tornati all’ufficio avevano sbagliato i dati e quindi adesso aspetteremo altri mesi, sperando che non sbaglino di nuovo» confida quasi rassegnato Razi. «Io ho montato anche film a partire da un girato di 100 ore, pensavo fosse la cosa più difficile nella costruzione di un film, ma invece questo brutto episodio è davvero un incubo, ancora non riesco a farmene una ragione» aggiunge Soheila.
La loro vicenda, rilanciata dalla stampa locale, ha avuto una certa eco, tanto che un gruppo di amici ha avviato una petizione online rivolta alle autorità per velocizzare la pratica – il cui iter è cominciato nel 2015 – per il riconoscimento della cittadinanza italiana ai coniugi Mohebi e al loro figlio Sepanta di 11 anni, nato in Afghanistan ma “trentino” da quand’era in fasce. «Lui pensa in italiano, parla italiano, mangia italiano – dice Razi –. Ha amici italiani, pensa di essere italiano, perché capisce il mondo dal punto di vista degli italiani, ma giuridicamente non è italiano. Siamo apolidi».
Che cosa comporta in concreto il vostro status? Come riuscite a produrre i vostri film?
Razi: Se un regista, come nel nostro caso, non ha cittadinanza, non ce l’ha neanche il film. E se un film non ha cittadinanza non può usufruire di finanziamenti statali e di co-produzioni internazionali. Il problema, compreso quello della libera circolazione, non rimane circoscritto a noi, ma anche ai produttori italiani e ai distributori, che non riescono a vendere il film. La cittadinanza italiana ci permetterebbe al contrario di trovare produttori e finanziamenti internazionali e italiani e potremmo lavorare e far lavorare collaboratori con meno difficoltà. Quando lavoravamo in Afghanistan – a Kabul avevamo fondato una casa di produzione cinematografica – avevamo creato una rete internazionale con Paesi come la Francia, il Giappone, il Canada, ma nella nostra situazione attuale ci è impossibile sfruttare quei contatti, a causa delle limitazioni burocratiche.
Facciamo un passo indietro. Come è iniziato il vostro sodalizio artistico (e di vita)?
Soheila: Ci siamo incontrati nel 2001 a Teheran, all’epoca studiavo ingegneria elettronica, ma ero già appassionata di cinema, ero membro della Cineteca di Teheran, dove negli anni ho potuto vedere intere retrospettive dedicate ai maggiori cineasti europei, come Pasolini, Fellini, Bergman. Ho incontrato Razi per caso, in un centro culturale, ad un incontro sull’Afghanistan e sulla mancanza di diritti dei cittadini afghani in Iran. Tuttora i bambini di genitori afghani non hanno alcun tipo di diritto, né ai servizi sanitari, né allo studio. Sono vietati i matrimoni tra iraniani e afghani e persino donare gli organi. All’incontro era stato invitato il regista francese Christophe de Ponfilly, che aveva dedicato una serie di documentari all’Afghanistan (nel 2005 Razi sarebbe stato aiuto regista per il suo film L’étoile du soldat, ambientato nel 1980 durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan, ndr). Tra i partecipanti ho subito notato un gruppo di ragazzi afghani – tra cui spiccava Razi- che hanno preso la parola per raccontare la propria esperienza e la propria opinione. Razi all’epoca già si occupava di cinema – aveva frequentato l’Università del Cinema a Teheran – io ero un’appassionata e su questo terreno comune abbiamo iniziato a frequentarci. Ho coinvolto anche alcuni miei amici iraniani in un progetto di scuola per bambini afghani nella banlieue di Teheran: una stanza molto piccola, senza luce, senza lavagna. Per me che provenivo da ambienti borghesi della città era qualcosa di totalmente sconosciuto e surreale. Nella primavera del 2002 Razi è tornato in Afghanistan e ha fondato una casa di produzione cinematografica, la Kabul Film, e io l’ho raggiunto un anno dopo.
Razi: In quel periodo post-Taliban c’era un’atmosfera di speranza per il Paese e la sensazione che potesse esistere un Cinema Afghano. Infatti, se nel periodo pre-talebano, non c’erano particolari problemi per il cinema, se non di natura economica e tecnica, durante la dittatura talebana il cinema era vietatissimo: fare un film equivaleva a una condanna a morte. Invece dopo il 2002 con la caduta dei talebani ha iniziato a svilupparsi un cinema afghano internazionale molto forte, sia per capacità di pensiero che a livello economico, anche grazie all’interesse di produzioni e festival internazionali. Fino al 2007 sono stati prodotti decine di film che hanno girato in tutto il mondo nei più prestigiosi festival e molti anche distribuiti nelle sale cinematografiche, tra cui Alle cinque della sera di Samira Makhmalbaf, vincitore del Premio della giuria al 56º Festival di Cannes, nel 2003, in cui recitavo. Purtroppo dopo il 2007 i produttori internazionali hanno iniziato a non investire più, perché non si riuscivano a terminare progetti già iniziati per motivi di sicurezza: sono capitati anche attacchi kamikaze sui set. Negli ultimi anni stanno emergendo, anche grazie al digitale, giovani filmmaker pieni di energia e vitalità che si esprimono attraverso i cortometraggi.
Ho letto che nel 2007, mentre eravate a Trento per presentare un film, la vostra casa di produzione in Afghanistan è stata attaccata e avete deciso di non tornare là. Ma come mai avete scelto di vivere proprio in Italia?
Razi: Siamo stati costretti a non tornare in Afghanistan: abbiamo perso tutto lì. Entrambi conoscevamo un po’ l’Europa: avevamo fatto tanti viaggi in giro per festival In Olanda, Germania, Francia. Soheila aveva anche vissuto a Parigi, dove aveva frequentato la Scuola di Cinema Femis. Attraverso i viaggi ci siamo resi conto che c’era bisogno di conoscere l’Europa per conoscere l’Afghanistan, perché il problema dell’Afghanistan è internazionale e collegato all’Europa. E abbiamo scelto l’Italia per conoscere noi stessi, soprattutto attraverso le difficoltà. Per un breve lasso di tempo abbiamo pensato ai Paesi del Nord-Europa, dove tutto funziona, tutto sembra più facile. C’è un sistema già fisso e ti devi muovere all’interno di questo sistema di welfare. Lì il corpo biologico non ha problemi, ma il corpo politico sì. Quando sei in una situazione di piacere, consumi tutta la tua creatività nel divertimento velocemente e poi ti annoi. Invece c’è bisogno di felicità, ma anche di infelicità e di dolore, che stimolano il pensiero, che a sua volta stimola la creazione, e quando crei sei felice.
Se la situazione socio-politica si normalizzasse, tornereste a vivere in Afghanistan?
Razi: Una volta caduto per terra ho scoperto di avere due piedi, che mi hanno portato prima in Pakistan, poi in Iran e infine in Europa, in Italia. Mi sento legato a tutti questi luoghi e ormai non riesco più a distinguere qual è la mia identità.
Voi lavorate in coppia: come vi dividete il lavoro?
Razi: Non c’è una vera e propria suddivisione di ruoli. Tutto si intreccia, si mescola, pensiamo, parliamo, scriviamo, poi realizziamo.
Soheila: Io mi occupo di più del montaggio, mentre Razi di più della fotografia e delle riprese. Nel caso di Una casa sulla nuvole, entrambi ci stiamo dedicando alle riprese, perché c’è questa frontiera del viaggio, che diventa sfuocata, che raccoglie gli sguardi di entrambi e quindi c’è la necessita che la camera sia a volte i suoi occhi, a volte i miei.
Oltre a Una casa sulle nuvole, a quali altri progetti vi state dedicando?
Soheila: Nel 2009 io e Razi, insieme a Maria Rosa Mura, Gabriele Borghi e Beatrice Segolini abbiamo fondato l’associazione Socio Cinema all’interno della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Da allora teniamo ogni anno un workshop di 100 ore sul cinema digitale. Il costo di partecipazione è basso, perché crediamo che sia giusto dare a tutti l’opportunità di imparare a fare il cinema. Ogni anno vengono prodotti alcuni cortometraggi, soprattutto sul tema delle migrazioni. L’aspetto gratificante è che molti di coloro che abbiamo conosciuto attraverso questi corsi, adesso collaborano con noi e si sono creati rapporti di amicizia. In questi giorni stiamo terminando la post-produzione dei cortometraggi del 2016, uno dei quali parla della questione del lavoro socialmente utile, che i rifugiati devono prestare a titolo gratuito e delle conseguenze in caso di rifiuto. La proiezione di presentazione sarà l’11 febbraio 2017 presso la sede di Caritro (Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto), che ha anche contribuito finanziariamente al progetto. Oltre al workshop siamo in fase di trattamento di un film, Vite in transito, selezionato da Raicinema per il Nordest.
Razi: Tutti i nostri film parlano di migrazione, perché tutti i film parlano delle nostre vite e fare film è la nostra vita. Per questo motivo anche nostro figlio contribuisce ai film con le sue idee.
Qui la loro filmografia completa.
Marina Resta