Sirene (Capossela a Melbourne)
Melbourne, la città dalle quattro stagioni in un giorno.
O in una settimana, quantomeno.
A volte è un attimo, e il sole che spacca il cranio viene ingoiato da nuvole pesanti, e l’acqua vien giù a scrosci, a secchi, a cascate. Piove come se tutti gli angeli incontinenti del paradiso si fossero messi a pisciare in una volta sola, un diluvio che pare non debba ceder spazio ad alcun domani. Ogni giorno è diverso, non si sa mai cosa aspettarsi. Melbourne, l’imprevedibile, la amo anche per questo.
Oggi è il vento che domina le strade.
Che poi non è una novità. Ma questo è un vento più feroce del solito, rovente, un vento che asciuga gli occhi e alleva incendi. Aria di fucina, più che di città.
Un vento da chiudersi in casa ad aspettare che il mantice si fermi, che la notte scenda a ricompattare l’asfalto pastoso. E invece me ne sto seduto in tram, con questa canzone di Capossela che rimbalza tra le orecchie, pensando che nei viaggi veri, i viaggi degli uomini, non di Ulisse né dei villaggi Valtur, la differenza principale con la vita “normale”, quella che c’era prima e tornerà poi, è che, qui, lo sforzo serve per fermarsi. Per convincersi un poco a restare. Per non farsi trascinare da quella voglia di ignoto che alle volte fa sbiadire il quotidiano e inietta nelle vene un bisogno fisico, palpabile d’andarsene altrove. Quella malattia che sfibra l’hic et nunc e di cui ogni viaggiatore è infetto; che, una volta all’estero, invece di sopire soddisfatta si eleva al quadrato, tortura il doppio, spingendo dita febbrili a scorrere sulla mappa, a tracciar percorsi che faticano ad attendere il domani.
Che chiamano con voci di sirene verso il prossimo, allettante altrove.
Maledizione della Strada – muovere avanti, sempre avanti, a scoprire cosa si cela dietro la prossima curva; è un contrappasso dantesco che lacera l’anima: l’essere talmente soverchiato dalla voglia di andarsene da non essere più in grado di trovare un posto dove arrivare. O dove, quantomeno, restar quieto per un po’.
Eliano Ricci