Protezione civile e profughi, 1700 anni di tangenti

Sono molte migliaia e premono alla frontiera. Fuggono dalla guerra e dalla fame, sono pronti a lavorare nei campi, far gli operai, pulire le case, badare agli anziani. In cambio, chiedono di essere alloggiati nelle città e nei villaggi e si accontentano di poco: cibo, un tetto anche se sgangherato, una coperta, qualche soldo quando c’è.
 
Accoglierli o respingerli? L’opinione pubblica è divisa, in Senato si discute animatamente di vantaggi e svantaggi di una politica di integrazione in uno Stato invecchiato e corrotto, preda di una crisi economica e di valori, mentre un influente vescovo, nato da una ricca famiglia e proprietario immobiliare egli stesso, avverte che di fronte a questa gente “solo un pazzo potrebbe non avere paura, vedendo tutti questi giovani cresciuti all’estero e che continuano a vivere secondo le loro abitudini”.
 
Nel frattempo, la massa di migranti e profughi attende le decisioni di una burocrazia sclerotizzata e lenta: uomini, donne, vecchi e bambini sopravvivono ammassati in campi di fortuna, allestiti d’urgenza dalle autorità centrali e locali, in condizioni igieniche terribili, con poco da mangiare, esposti al caldo torrido dell’estate ormai inoltrata, sostenuti dai piccoli ma preziosi aiuti di una popolazione divisa tra il senso di umanità e la diffidenza verso lo straniero.
Sembra la cronaca dell’esodo verso Lampedusa. Invece siamo nell’anno 378 dopo Cristo, lungo le rive del Danubio, ai confini dell’Impero Romano diviso tra Oriente e Occidente, entrambi alle prese con i flussi migratori da est e nord est. La folla di disperati è quella dei Goti, sospinti verso l’Impero dall’incalzare delle bellicose tribù degli Unni, nomadi sempre in cerca di bottino, guerrieri più abili e quindi in grado di mettere in fuga un intero popolo.
 
Questa vicenda finirà male per i Romani. L’opera di soccorso dei migranti è affidata all’esercito di Costantinopoli, dove governa l’imperatore Valente, incerto al pari dei nostri premier e ministri attuali. Protezione civile gestita dai militari, al comando di un generale chiamato Flavio Lupicino, il quale ha il compito di coordinare i soccorsi e favorire i primi passi dell’inserimento degli stranieri nei territori romani. Si tratta di mano d’opera preziosa, utile per rinfoltire le fila di un esercito al quale i cittadini, impigriti e imborghesiti da secoli di benessere, aderiscono sempre più mal volentieri. E per coltivare le campagne inaridite da un ormai antico processo di urbanizzazione delle popolazioni, che ha visto nel tempo i giovani abbandonare i borghi rurali per cercare fortuna nelle metropoli che invece finiscono per relegarli nelle periferie più povere e disperate, con lavori precari a mal pagati.
 
Un quadro complesso, quello del 378, che ricorda assai da vicino l’Italia dei nostri giorni. Con le medesime fobie, incertezze, furbizie. Al pari dei sindaci leghisti che vietano la vendita di kebab nelle loro città, alcuni imperatori proibiscono di portare “capelli lunghi, gambali e abiti di pelle”, segno distintivi della moda gotica e germanica: chi vuol vivere nell’Impero, deve essere ed apparire Romano.
Non tutti gli immigrati però sono costretti a vivere in condizioni disumane. Molti di loro hanno fatto carriera nell’esercito e nelle amministrazioni civili, raggiungendo incarichi di responsabilità ben remunerati che suscitano l’invidia dei cittadini. Il vescovo Sinesio di Cirene li accusa di fomentare rivolte armate e di dare il cattivo esempio agli altri Goti, i quali divengono “sfrontati e temerari e imbaldanziti dalla riconquistata libertà sino a commettere le azioni più empie”. Più tardi un altro vescovo, Salviano di Marsiglia, a proposito dei barbari scriverà invece che i Goti hanno costumi etici certamente più puri dei dissoluti Romani e che questo nuovo popolo è forse uno strumento di Dio per indicare ai cittadini dell’Impero la via per tornare alla virtù.
 
Certo, allora come oggi la questione religiosa, oltre quella economica e lavorativa, assume un peso importante nel dibattito. Goti e Vandali sono ariani, seguaci di una eresia cristiana, e ciò pone ulteriori problemi al loro ingresso, anche se l’Arianesimo è praticato anche da numerosi Romani, alcuni dei quali ricoprono cariche politiche e militari di primo piano.
E’ un quadro complesso quello nel quale si svolge l’opera di Flavio Lupicino e  dei suoi soldati, incaricati di portare soccorso ai Goti accampati al di là del Danubio, in attesa di quello che oggi chiameremmo un permesso di soggiorno collettivo. Per placare quelle decine di migliaia di persone, l’Impero tramite alcuni ambasciatori ha promesso accoglienza, lavoro nei campi e nell’esercito, condizioni di vita dignitose.
 
Qualche scaramuccia c’è già stata, perché alcuni guerrieri, stanchi di attendere le lentezze della burocrazia imperiale, hanno attraversato il fiume e si sono scontrati con le pattuglie di guardia sulla sponda romana. Ma la decisione di Valente, sovrano della parte orientale, impone di considerare i barbari come una risorsa per l’economia e non come una minaccia per la società. Gli ufficiali che hanno usato la mano troppo pesante nella repressione vengono rimossi e la migrazione sembra avere uno sviluppo positivo. All’arrivo della “protezione civile”, l’ingresso inizia in maniera controllata. I soldati hanno disposizione di far entrare i Goti a piccoli gruppi, dopo però averli disarmati. Ma alcuni militari ed ufficiali, raccontano le fonti dell’epoca, si lasciano corrompere e fanno passare anche grossi gruppi armati, senza rispettare ordini né priorità. A sud del Danubio, così, si formano grossi campi di rifugiati in condizioni critiche. La voce che Roma ha aperto le frontiere si sparge ad est, e così altre tribù arrivano a premere sul confine.
 
L’esercito di Costantinopoli, fra tangenti, incertezze, violenze e pavidità, non riesce più a governare la situazione e lo stesso comandante, Flavio Lupicino, si rende conto che la gestione degli aiuti può diventare un lucroso affare per sé ed i suoi amici. La fornitura delle razioni per i migranti venne data in appalto in cambio di tangenti, raccontano ancora gli storici romani, con il conseguente interesse a far durare l’emergenza più a lungo possibile così da massimizzare i guadagni per corrotti pubblici e corruttori privati. Il malaffare cresce di pari passo con l’ingrossarsi della presenza di barbari dentro i malandati campi, finché la disperazione sfocia in rabbia e in rivolta. L’insurrezione esplode quando i militari tentano di avviare il trasferimento dei profughi verso altre terre, così da alleggerire la situazione in loco.I Goti prendono le armi e giungono allo scontro con l’esercito nei pressi di Adrianopoli, il 9 agosto del 378: i Romani vengono massacrati, e lo stesso capo della “protezione civile” Flavio Lupicino trova la morte per mano nemica insieme all’imperatore Valente. Costantinopoli chiede aiuto alla parte occidentale, ma la vecchia capitale non manda i suoi soldati in soccorso della città che ha voluto quello che oggi definiremmo come una sorta di “federalismo imperiale” contro lo strapotere di una Roma considerata in qualche modo matrigna e “ladrona”.
 
Furono così, allora come oggi, corruzione, pregiudizio e burocrazia a trasformare una proficua politica di integrazione in un drammatico e sanguinoso “scontro di civiltà”. Una lezione mai studiata abbastanza.

Marco Mostallino

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