Sci: "Contro un volontariato neocoloniale"
Il Servizio Civile Internazionale (SCI) è un’organizzazione laica attiva dal 1920 nel campo del volontariato e della cooperazione internazionale. All’interno di un panorama nazionale dominato dalle associazioni di stampo cattolico, è interessante vedere come lo SCI si approcci alle tematiche del volontariato e dell’attivismo in modo radicalmente diverso – a tratti eretico – rispetto a quanto viene solitamente dato per scontato. Abbiamo incontrato Riccardo Carraro, segretario di SCI Italia, per conoscerne meglio il punto di vista.
D – Ciao Riccardo. Partiamo subito con quella che è una caratteristica fondamentale del Sevizio Civile Internazionale: l’essere un’organizzazione slegata da valori confessionali. In una scena italiana dominata dalle associazioni di stampo cattolico, quali sono le problematiche (o i vantaggi) che SCI si trova a dover gestire?
R – Tra le problematiche di sicuro quella di non riuscire ad accedere facilmente a certe fonti di finanziamento, o non far parte di consorzi di associazioni cattoliche che riescono ad esercitare una advocacy importante. Molti però sono pure i vantaggi. Tanti volontari ci ricercano proprio per il nostro dichiararci “laici” fin dalla prima pagina del sito web. Credo poi che il nostro essere liberi dall’immaginario “pietista-missionario” nella nostra comunicazione (dove non ci sono mai bambini affamati, lacrimosi o sorridenti, né persone che soffrono) sia apprezzato. Alcuni ci troveranno poco interessanti, ma sono convinto che in molti ci valorizzino proprio per questo.
D – Sul piano più generale: quanto è alto il rischio, per le ONG occidentali che operano nei paesi sottosviluppati, di riprodurre localmente rapporti di dipendenza pseudo-coloniali, che impediscono di fatto uno sviluppo indipendente delle popolazioni locali?
R – Il rischio è elevatissimo, e il problema è strutturale. Per come è pensata, organizzata e finanziata, la cooperazione allo sviluppo oggi non crea autonomia ma, al contrario, determina rapporti di dipendenza neocoloniali. Che fanno comodo sia a chi fa cooperazione da qui che ai piccoli gruppi di beneficiari locali coinvolti. E il problema non è solo lo sviluppo indipendente negato, il problema è la perpetuazione di strutture di potere e quindi di controllo, consolidate dal flusso di denaro “bianco”. La cooperazione è un sistema figlio di un epoca passata (il novecento) da ripensare interamente.
D – Col progetto Beyond Walls SCI è attivo anche nei Territori Palestinesi, un’area del pianeta a cui anche noi di AND prestiamo particolare attenzione. Quanto credi che l’attivismo internazionale possa effettivamente contribuire al miglioramento delle condizioni di vita del popolo palestinese?
R – Diciamo che l’attivismo in sé non può pensare di essere uno strumento reale per migliorare le condizioni di vita. Quello che però può fare è innestare processi e circoli virtuosi, in cui grazie al confronto, lo scambio e la conoscenza reciproca la gente può attivarsi, sentirsi meno sola e non abbandonarsi all’apatia e alla sfiducia. Questo vale per la popolazione in loco, ma vale pure per il volontario che rientra in Italia, che ha aperte mille sfide, decine di cause per cui, se vuole, può impegnarsi. Per non rassegnarci all’ingiustizia che è presente tanto lì quanto qui.
D – Negli ultimi anni, a seguito della crisi, abbiamo visto diverse ONG che operano tradizionalmente su un piano internazionale riorganizzarsi per lavorare anche sul territorio italiano, penso ad esempio ad Emergency. Fino a che punto è giusto, e necessario, che il volontariato vada a coprire le carenze dello Stato?
R – Il volontariato di per sé deve portare un valore aggiunto, dato dalla motivazione e dalla relazione di scambio e conoscenza reciproca che grazie al lavoro di gruppo può avere luogo. Ma non può mai coprire un servizio che deve essere fornito dal pubblico.
Di fatto non siamo solo davanti a una crisi: stiamo letteralmente assistendo allo smantellamento del sistema di welfare che aveva retto, seppur tra mille difficoltà, dagli anni ’70 ad oggi. E questo è grave. Anzi, il compito di tutte le associazioni di volontariato è, a mio parere, proprio di fare pressione politica perché quel sistema possa rimanere in piedi, perché è il minimo strumento che ci è rimasto per redistribuire il redditto in questo paese.
D – Dal vostro documento politico si evince il rapporto privilegiato che avete con il movimento NoTav. Non è anomalo che un’organizzazione come la vostra, per sua stessa definizione “internazionale” si leghi ad istanze così strettamente locali?
R – Lo SCI si è sempre occupato di tematiche locali, attraverso i gruppi regionali che animano la nostra associazione, e ha sempre cercato di unirli a macro-tematiche globali. In ogni caso, nello specifico, non è anomalo anche perché la lotta NoTav non è locale. E’ una lotta di tutti perché sono tratti da fondi nazionali ed europei (quindi nostri) i 38 miliardi di euro che verranno sprecati nel farla, e perché è una lotta simbolica, che ci riporta alla relazione tra una comunità e il suo territorio. E’ una battaglia che mostra il desiderio di una comunità di poter partecipare e poter determinare il proprio rapporto con l’ambiente senza essere schiacciata da potentati economici e politici che decidono sulla pelle delle persone. In Val Susa la questione non è se fare o no un tunnel. La questione è la democrazia del nostro paese. In Val Susa c’è in ballo un intero sistema di valori quali la salute, la tutela dell’ambiente, la partecipazione dal basso (e quindi la democrazia), che si scontrano con la logica del profitto e dell’arroganza, visto che è evidente a chiunque che la Tav è utile solo a chi la costruisce.
Se è questo quello che accade lì, allora riguarda tutti quanti, non solo i valsusini. È proprio il suo portato simbolico ad averci ha spinto ad investire così tanto in quel contesto.
D – È interessante notare come dai vostri documenti emerga forte il concetto di “resistenza”. Come si fa resistenza, oggi?
R – Si fa resistenza ogni volta che ci si attiva per difendere luoghi, valori o idee che rischiano di essere distrutte per l’avanzata del profitto sfrenato e divoratore che l’economia neoliberista sostiene. Si fa resistenza quando si difende la scuola pubblica, o quando ci si oppone alla privatizzazione dell’acqua o quando si lotta contro un inceneritore. Si fa resistenza quando si innescano meccanismi collettivi di responsabilizzazione e attivazione, quando si esce dalla passività della televisione e ci si impegna. Perché una alternativa a quello che oggi viviamo è ancora possibile.
Usiamo questo termine perché molto evocativo, senza volerlo banalizzare ma senza nemmeno equiparare tutte queste lotte legittime alla Resistenza dei nostri nonni, ai quali dobbiamo la nostra (oggi purtroppo malconcia) libertà.
D – Sono molte, oggi, le organizzazioni che propongono campi di volontariato, in cosa si differenziano i campi SCI?
R – Beh, non è facile rispondere, perché di campi ne facciamo tanti (siamo l’associazione che a livello mondiale li ha inventati!), ciascuno con caratteristiche diverse (http://workcamps.info/icamps/). In generale per lo SCI i campi non sono mai subordinati ad altri obiettivi, per quanto validi siano, quali la protezione dell’ambiente o la tutela delle minoranze. I campi SCI, con tutte le varietà di tematiche e di luoghi dove si svolgono, sono e rimangono sempre e comunque degli esempi concreti di cittadinanza attiva. Il campo non è un mai fine in sé, ma un mezzo per conoscersi, superare barriere interculturali e per essere persone attive e consapevoli, durante il campo, ma sopratutto nella vita quotidiana che continua dopo. Questa credo sia la differenza più rilevante.
Per saperne di più il sito web di SCI Italia è: http://www.sci-italia.it
Eliano Ricci
@_elioR_