Eu sou estudante…Iniziazione nelle università portoghesi
Gli studenti, in Portogallo, si riuniscono nell’ “associazione accademica” della propria Università – a Lisbona, come a Porto, a Coimbra, ad Evora e via seguendo.
Si tratta di associazioni pressoché istituzionalizzate (l’assenza della parola “studente/i” nel nome ne è un buon indizio) che devono la loro importanza al ruolo svolto durante la Rivoluzione dei Garofani, origine del seguito e della legittimazione di cui godono in università.
Lo “stare insieme” benché abbia acquisito anche una valenza politica ha i suoi fondamenti in un passato molto più lontano, nella tradizione accademica e in un certo modello culturale a cui si ispira il corpo studentesco nel suo complesso.
Un modello tradizionale esportato dall’Università di Coimbra e acquisito dalle altre università per emulare l’ateneo più antico del paese e tra i più antichi d’Europa.
Questo modello di aggregazione è costruito intorno alle associazioni accademiche, all’appartenenza ad un corso di laurea e alle tunas (gruppi musicali) e si articola seguendo la scansione delle varie tappe del percorso universitario.
L’iscriversi all’università ha la sua componente di ordinaria burocrazia, ma prevede anche un’iniziazione molto discussa (e discutibile): la praxe. Questa è una sorta di immatricolazione, dove gli iscritti al primo anno vengono introdotti all’università con una serie di “goliardate”: dalle bevute di gruppo, al rotolare sul selciato, al sostenere diverse prove fisiche. E sempre della serie “goliardate” qualcuno ci sta, qualcuno no, qualcuno si diverte, qualcuno si fa male. L’obiettivo dichiarato è il favorire l’integrazione tra i neo-iscritti, facendoli condividere dei momenti di sofferenza e così comunicandogli anche che si è tutti uguali. Tutti uguali i partecipanti, perché come ogni rituale è inclusivo ed esclusivo e la partecipazione condiziona la possibilità di instaurare delle amicizie.
La praxe, per i sopravvissuti, prevede la scelta di un padrino, uno studente più grande che ti guiderà tra i perigli dell’accademia, e infine si conclude l’1 Novembre con un’altra pratica piuttosto curiosa. I primini si devono togliere le scarpe, queste vengono assemblate e poi gettate da una scalinata in direzione dei primini stessi. Questi devono riuscire a recuperare le loro scarpe (a volte ci mettono dei giorni), a pena di perderle, prendere quelle di qualcun altro e in teoria di non poter cominciare il corso. Quest’ultima (pena) ha oggi solo un significato simbolico.
Finito il primo anno e liberatisi dalla condizione di matricola, al secondo anno potranno cominciare ad indossare la divisa universitaria uguale in tutti gli atenei: completo nero, pantaloni per i ragazzi e gonna per le ragazze, comprensivo di camicia bianca, scarpe e mantello sempre neri.
Se alla base la divisa è identica, ci si può distinguere accumulando durante gli anni simboli, stemmi o immagini che vengono cuciti sul mantello. Ma al secondo anno non si è ancora entrati a tutti gli effetti, in quanto solo dal terzo si può partecipare ai rituali di sevizia dei primini.
Altra soluzione aggregativa è la tuna ossia una banda studentesca. Anni fa erano numerose, adesso all’Università di Evora, per esempio sono solo due, una femminile e una mista, che cantano e ballano canzoni più o meno tradizionali, accompagnate da strumenti a corda e tamburelli a sonaglio.
Alla fine dei 5 anni c’è la Queima das fitas, essenzialmente la cerimonia di laurea dei “finalisti”. Ogni studente si presenta alla discussione della tesi, con parenti, amici, etc. ovviamente in completo nero e si porta appresso un bastone con attaccate alcune fitas: delle striscioline di stoffa, regalate e scritte, da amici o parenti.
Dalla sera e per tutta la notte, ogni finalista si reca nel cortile storico dell’Università, passa per una fiaccola dove brucia la punta di una fita, viene accompagnato su una passerella e gettato in una piscinetta (in principio era la fontana, ma buon senso ha voluto che si cominciasse a risparmiarla), uscito con i vestiti fradici e tra grandi applausi, passa di fronte al rettore, seduto su una cattedra appositamente allestita poco lontano. La regola vorrebbe che questi bevesse un bicchiere di vino con ogni laureato, ma per ovvia impossibilità, si limita ad assistere per tutta la notte alle abluzione degli studenti e a un breve saluto.
Di contorno una festa di una settimana, cosiddetta “settimana accademica”.
Finito tutto, vige l’interdizione di portare la divisa, ma sarà ancora possibile indossare il mantello, carico delle gesta compiute negli anni trascorsi all’università.
Mattia Gusello